Giovedì non ha capito. Cerca la sua colpa e prega di trovarla. Cerca cos’è che non gli torna, ma siccome non gli torna non lo trova. Si mette a letto, pensa che così doveva andare, ma non ci crede per davvero. Venerdì il suo non capire è una dinamica lentissima che dura tutto il giorno e ai due lati della quale stanno: un grande gioco di arbitrarie torture, che non domina, e che non vede in faccia, e che lo gioca senza cause; una poesia infinita, che lei è e che lei sa dire, e accanto alla quale lui è minuscolo e privo di parole per descriverla, e colmo di devozione muta, e di un confidare cieco. Sabato sale a San Miniato. Nel bosco dei cipressi ascolta il vuoto, legge il nulla. Torna a casa e grazia i postit attaccati sopra al muro, lascia il rosmarino sopra al davanzale, e la salvia, malata di bianco, che non mangia mai, e di cui ogni giorno ha cura. Nemmeno la malta della settimana scorsa dai lacci delle scarpe ha avuto il cuore di lavare. Spazza il pavimento e si autoassolve, perché il fatto non sussiste.