Il 13 febbraio, cioè il giorno di Se non ora quando, Eugenio Scalfari ha scritto qui: «A noi non importano molto i peccati perché siamo libertini illuministi e relativisti. A noi importano gli eventuali reati e chi pecca e crede confidi nella misericordia di Dio».
Si è già detto qui del sostanziale accordo tra la seconda parte di una simile dichiarazione e la metafisica ratzingeriana: entrambe poggiano sull’assunto che sia impossibile rinvenire una scala di valori al di fuori della religione, e in particolare di una religione basata su una teologia volontarista. Se non fa notizia il relativismo di Scalfari, fa un certo effetto leggere una dichiarazione del genere – «a noi importano gli eventuali reati» – in una giornata come quella del 13.
Certo, è una frase che può voler dire che, in questo frangente e al di là delle considerazioni personali e in relazione solo a quanto è successo in un determinato luogo, «a noi importano gli eventuali reati»; ma è una frase che, almeno a me, pare anche voler ostentare una generale indifferenza o addirittura tradire una totale incomprensione rispetto al percorso che la coscienza collettiva del paese ha compiuto negli ultimi mesi, al complesso di ragioni che hanno portato migliaia di persone in piazza nel giorno in cui Scalfari ha scritto, un complesso di ragioni anche contraddittorio, composto di opinioni, analisi e sensazioni che sono in cerca di una sintesi, che sicuramente sollevano il problema di trovare una sistematizzazione coerente e ci pongono domande sulle nostre idee di mondo, ma che, proprio per questo, rappresentano una ricchezza inestimabile: questa era della politica, un’era della politica dove la politica è realmente la proiezione delle nostre pulsioni più oscure, è stata ed è anche una grande occasione per conoscere noi stessi; l’affermare che si tratti di una mera questione di legalità mi sembra figlio di un riduzionismo cieco che spreca questa occasione (un riduzionismo che, anche qui, mi pare riveli una profonda analogia con la teologia di coloro che Scalfari avversa).
Per troppi anni il dissenso nei confronti dell’idea di mondo che Berlusconi ha rappresentato e avvalorato ha fatto appello quasi solo al rispetto della legalità, come se la cultura dell’illegalità non fosse che un problema secondario rispetto all’illegalità, come se avessimo un problema di legalità più che di celebrazione dell’illegalità, come se la tendenza all’illegalità non fosse solo una parte di una forma mentis più complessa, che comprende anche una morale e una concezione del mondo.
Da mesi, finalmente, sembra che nel dibattito pubblico si stia facendo strada la coscienza di quanto ciò che accade abbia a che vedere con dimensioni meno di superficie rispetto alla legalità: si è parlato prima di Mondadori, spostando l’accento su un universo della comunicazione più ampio di quello della mera informazione; si è lottato per la scuola e l’università, rendendosi conto della pericolosità di un attentato alla formazione e alla cultura; infine ci si è trovati in piazza per una questione che è soprattutto antropologica, che va ben al di là dei presunti reati di Berlusconi, e che ci interroga, per esempio, sulla coerenza tra la difesa della libertà sessuale e la condanna della reificazione delle persone e la mercificazione dei corpi, e pone domande che attraversano in lungo e in largo la nostra cultura e le nostre psicologie.
«A noi importano gli eventuali reati» è una dichiarazione che appare tragicamente fuori contesto, e in definitiva povera, a fronte dello spessore delle discussioni in campo, e anni luce indietro rispetto a queste due considerazioni di Mancassola e di Binaghi:
«Un’opposizione che si limiti a sperare di usare uno scandalo sessuale per togliere di mezzo Berlusconi, senza fare insieme lo sforzo di mettere in campo un’altra idea di società, merita l’accusa di moralismo».
«Ci si pretendeva migliori ma non si voleva dire in nome di che cosa, perchè questo costringeva a pensare in termini normativi oltre che critici, e a sconfessare il soggettivismo assoluto a cui i cascami del ‘68 avevano ridotto il pensiero che un tempo era stato politico».
I corsivi sono miei.