Asophia, commentando questo post, in merito all’ipotesi tipografica (che non è l’ipotesi casa editrice a pagamento), dice di credere che vi sia una bella differenza tra scrivere su un blog e “scrivere un libro che verrà editato (nel senso di “pubblicato”, NdJ), per l’aspetto cartaceo in sé, per avere tra le mani la propria creatività e annusarne le pagine e la bellezza di sfogliarle”.
Lì per lì stavo per rispondere con un altro commento; mentre scrivevo, però, mi sono accorto che avvertivo una certa difficoltà nell’esprimere il mio pensiero, e ho deciso che sarebbe stato più onesto scrivere un post, perché un commento è meno esposto.
Mi rendo conto di avventurarmi in un territorio delicato; non si parla più di case editrici a pagamento e quindi (forse) non si parla più di acquisto di titoli nobiliari. La questione è (forse) più sottile e tocca la sensibilità di chi si senta chiamato in causa, da una parte e dall’altra. Ciò che vorrei provare a fare è tratteggiare una differenza tra due universi che mi pare di vedere, ma posso farlo solo partendo dalle mie sensazioni, e dunque non è detto che nella descrizione delle mie sensazioni, che userò per tratteggiare questa differenza, possano ritrovarsi coloro che stanno da “questa parte”, non solo perché è possibile che essi stiano da “questa parte” con tutt’altri pensieri e sentimenti, ma anche perché è possibile che, per alcuni di loro, “questa parte” sia quella di chi non pubblicherebbe per una casa editrice a pagamento, e non quella, come è per me, di chi non pagherebbe per pubblicare. In ogni caso ringrazio Asophia per il suo commento, senza il quale non avrei avuto modo di scrivere questo post.
Credo anch’io, come Asophia, che ci sia una grande differenza tra scrivere su un blog e scrivere “un libro”; ma la differenza che vedo io non è quella di cui scrive Asophia: per me la differenza tra scrivere su un blog e scrivere avendo in mente un altro genere di letteratura e un altro formato – che potrebbe essere anche un pdf – sta nel fatto che diversi formati e diversi oggetti testuali hanno diversi scopi e diverse caratteristiche di fruizione, ed è bene che chi scrive ne tenga conto: ad esempio gli episodi di Fire fi che pubblico qui sul blog hanno una misura da blog, e anche, a monte, un concetto diverso da quello che avrebbero se fossero pensati come occorrenze di un altro genere letterario e scritti per un altro formato, al quale, così come sono scritti, non sarebbero adatti; posso al massimo definirli, nel loro complesso, un romanzo d’appendice. Un’altra differenza tra Asophia e me è che “scrivere un libro” è una frase che non mi viene naturale né pensare né pronunciare, infatti sopra ho parlato della “differenza tra scrivere su un blog e scrivere avendo in mente un altro genere di letteratura e un altro formato”, non della “differenza tra scrivere su un blog e scrivere un libro”: anche se penso a un romanzo o a una raccolta di racconti, non penso la parola libro; quando poi scrivo una recensione penso la parola recensione, anche se poi ne farò un post, e la stessa cosa capita con racconto, anche se poi ne farò un post; con i termini post e articolo intendo su per giù lo stesso oggetto testuale.
Ma forse la differenza più importante tra il modo di sentire di Asophia e il mio è che anche solo il pensiero di “avere tra le mani la propria creatività e annusarne le pagine e la bellezza di sfogliarle” mi respinge; e forse non tanto per le pagine da annusare o per la bellezza di sfogliarle, quanto perché nella parola creatività avverto una connotazione fuorviante.
Quando parliamo di creatività noi pensiamo a una qualità positiva, non a una qualità negativa. Con positivo e negativo qui non intendo bene e male, intendo il porre qualcosa o il togliere qualcosa; e credo che, quando si lavora a un articolo o a una recensione o a un racconto o a un romanzo, meno ci si ponga e meglio sia per la qualità e la verità di ciò che stiamo cercando di fare.
Nell’idea di avere tra le mani la propria creatività non posso fare a meno di percepire l’ombra del narcisismo, cioè una cosa che sento essere completamente estranea, se non contraria, a quanto intendo con ricerca. Il mio compito – e usando questo termine non voglio dire che io sia bravo a portare a termine un qualche compito, ma che, semplicemente, ciò che segue si presenta alla mia coscienza come un compito, e senza altri attributi – il mio compito è produrre il lavoro fisico necessario alla realizzazione di un’idea o di un sentimento in un oggetto fisico, sia esso analogico o digitale; il mio compito è la realizzazione fisica di qualcosa di non fisico che mi ha chiesto di faticare per portarlo nel mondo fisico, facendomi quanto più vuoto mi sia possibile farmi: sento che dall’opera devo sparire, e non riesco in nessun modo a vedere uno spazio per una mia creatività, in questo processo, senza vedervi necessariamente anche il tradimento del consenso che ho dato alla cosa non fisica quando la cosa non fisica mi ha chiesto di portarla nel mondo fisico.
Attenzione: con questo non intendo dire che non si possa e non si debba aspirare a vivere di un lavoro del genere, e non significa che i riconoscimenti non facciano piacere. Intendo semplicemente dire che questi riconoscimenti – quello di un lettore, pagante o non pagante, e quello di una recensione favorevole, e forse (forse) anche quello di una pubblicazione su carta (che comunque mi pare qualcosa di più complesso perché non è una cosa fine a sé) – fanno piacere se sono diretti alla capacità di scomparire che l’autore ha saputo mettere in atto (non dimostrare: mettere in atto); e qui sì c’è una forma di realizzazione personale, sicuramente.
È questa una forma più raffinata di narcisismo? Non so, bisogna chiedere a Freud (ma, per essere corretti, anche ai suoi antagonisti), e più intellettualmente onesto di così non riesco a essere; in caso, per limite d’intelletto. Credo che vi siano un giusto orgoglio artigiano e una giusta gratitudine per i riconoscimenti; credo che un giusto orgoglio viaggi parallelamente all’amore per la letteratura, e credo che abbia a che vedere con il riscontro del giudizio positivo dei lettori (dei quali fanno parte anche i consulenti editoriali, gli editori, i recensori e lo stesso autore quando emette un giudizio senza pensare a una sua creatività) in merito all’uso che si è fatto della mente, del cuore e della lingua, e che non abbia nulla a che vedere con l’idea di stringere tra le mani il prodotto o l’espressione di una propria creatività. Credo che vi sia una giusta sensazione di soddisfazione e pienezza per una pubblicazione su carta, che rappresenta il culmine del lavoro svolto, ma non perché il libro sia un oggetto-feticcio nel quale specchiare l’ego: al contrario, la sacralità del libro risiede nel suo essere una grazia concessa in virtù dell’abnegazione, di quella scomparsa di sé che l’autore è stato in grado di attuare.
In generale, da anni, mi sembra che non ci sia un universo della scrittura, ma che ci siano in realtà due universi differenti: uno che pensa e parla in termini di lavoro, ricerca, riscrittura, e un altro che pensa e parla in termini di arte, espressione, creatività.
Una pubblicazione, come accennavo prima, non è fine a sé, almeno da “questa parte” per come la vivo io: si scrive perché si ritiene di avere qualcosa di importante da dire agli altri e, – solo stante quanto precede – se lo si ritiene giusto, per essere pagati: per raggiungere il primo di questi scopi, e talvolta anche il secondo, sono sufficienti – e, mi pare, anche più efficaci rispetto ad altre soluzioni – le case editrici vere, i supporti e i diversi formati elettronici e la rete. Se si scrive per altri motivi, temo sia un altro universo; ma è possibile che chi sta da “questa parte”, dove sono io, di fronte a un autore che pubblica un libro per annusare e sfogliare la propria creatività, provi una spiacevole sensazione di profanazione.