Dove diavolo ho messo il cervello, cristo. Devo averlo lasciato sulla mensola, no, magari sulla stampante, nella tasca della giacca o in quella alta dello zaino, sì, deve essere lì. Mannaggia non c’è. Salterà fuori come al solito attorno alla mezza, quando devo andare a dormire e non ne ho voglia, non ne ho proprio. È che non ho nemmeno gli occhi: avessi gli occhi vedrei dove l’ho messo, il cervello, ma non ce li ho, vedo solo monitor e vedo solo il monitor, non vedo più la gente per la strada, la gente mi saluta e io non so chi sono, non vedo niente. Se almeno trovassi gli occhi, tastando, a tentoni, se almeno li trovassi, forse poi troverei anche il cervello, ma corre tutto così in fretta il pomeriggio, troppo veloce per i pensieri che ho senza il cervello. È che quando alle due mi butto finalmente dentro casa appoggio le chiavi e gli occhi dove poi non mi ricordo di averli messi, il cervello invece se ne va da solo, si prende una vacanza fino alle sei del mattino, e poi ancora un paio d’ore ce le mette. La mattina ci vuole il reggae, una musica sacra, una preghiera affinché l’ipod regga, leggo una pagina di Esiodo sopra l’autobus che non so mai se è quello giusto, perché il cervello si sveglia attorno alle nove. C’è il reggae mentre la nebbia corteggia le colline, c’è il reggae quando la pancia è vuota e l’autobus arriva sempre mezz’ora troppo tardi per salvarmi. Il levare mi culla, una costante ribellione contro il mondo, come diceva Roberto Grandi, una costante, rassegnata e assieme imperitura ribellione contro il mondo, un anelito al ritorno nel ventre della madre. Le opere e i giorni. Il nostro tempo non c’è più. Babylon makes the rules. Schiavi degli schiavi. Non ci passa un attimo.