Una versione leggermente ridotta di questa recensione di Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2007) è uscita sul numero di ottobre dell’Indice.
L’erede altera e anoressica di una famiglia benestante, il figlio di un meccanico alcolista e violento, una bambina che scrive racconti sul padre scomparso, un ragazzino che assiste alla separazione dei genitori, una giovane donna che afferma la propria indipendenza: sono i protagonisti dei cinque racconti che compongono Una cosa piccola che sta per esplodere, secondo libro di Paolo Cognetti. Il filo conduttore delle storie è l’adolescenza, che qui non è una palude di tempeste amorose e ribellioni incomprese, bensì una faccenda serissima con la quale si confrontano giovani esseri umani caparbi e silenziosi, talmente seria che sembra rendersene conto anche qualche adulto. L’adolescenza descritta in questi racconti più che un periodo è un movimento: una questione di spinte centrifughe e tempismo, di soglie che definiscono la personalità di chi le attraversa. «Se non sarò me stesso, chi lo sarà per me? Ma se sarò me stesso, chi mai sarò? E se non ora, quando?» recita l’epigrafe tratta dal Talmud di Babilonia.
Forte di una prosa intensa e controllata, Cognetti si immerge nelle vite dei suoi personaggi con umanità e rispetto – il che, per inciso, implica la capacità di dar vita a figure che abbiano personalità e autonomia – e, nello stesso tempo, con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale. Ed è tra le pieghe di questo spirito naturalista che si muove la suggestione più malinconica di Una cosa piccola che sta per esplodere: la formazione di un’identità forte e l’approdo sulla terra ferma della maturità non sono risultati garantiti; accanto ai protagonisti compaiono personaggi che non mostrano, durante la transizione, l’autocontrollo necessario a vivere un’esistenza ordinata, o che non sembrano avere abbastanza spinta per uscire dall’orbita dell’infanzia e diventare davvero adulti. E l’aspetto più turbante di questo lato oscuro del libro è il velato determinismo che lo pervade, la sensazione che la stessa forza di volontà non sia altro che uno stato di grazia indipendente dalle nostre scelte, una sensazione che si prova anche guardando ai protagonisti. Al termine della sua impresa, Margot di Pelleossa assomiglia alla leader di se stessa che era già da prima: il suo è un salto di comprensione, ma le condizioni per compierlo e saperne trarre vantaggio erano già in lei. Mina, la protagonista del racconto che dà il titolo al libro, reca nel nome la promessa di un’esplosione, ma ciò che vediamo ancor più chiaramente sin dalla sua infanzia è un corpo concentrato e solido, una biglia come quella che lei stessa evocherà in uno dei suoi racconti, una creatura che sembra fatta apposta per attraversare indenne le sventure. In Tutte le cose che non so di lei, il racconto che chiude il libro, Gilda, matrona di una cascina e vedova di un uomo che non era mai cresciuto, sembra attendere il momento della ribellione della figlia Anita con il senso d’inevitabilità con cui un contadino attende una stagione: «Eccola qui, pensa. La bugia. È la bugia che stavo aspettando». Ma sembra sapere altrettanto bene che il suo è un ruolo in una storia già scritta e che il suo tentativo di reprimere la rivolta è destinato a fallire, e tuttavia è necessario: la vittoria di Anita sarà il compimento della sua formazione.