Questa recensione è apparsa sull’Indice di gennaio.
Nel Regno la libertà di coscienza e di fare progetti è negata. Ciò è deciso affinché nessuno soffra; ma, pure, affinché nessuno metta in moto la storia, ferma da sessant’anni all’ordinamento paraplatonico che vede i Grandi Avvilenti – cioè i sacerdoti della dissoluzione delle speranze – al vertice del regime morale e, subito sotto di loro, i guardiani del Regno, gli Uominineri; infine la gran massa dei popolani: contadini, pescatori, artigiani. Tristano è un Grande Avvilente, si reca in missione nei territori di sua competenza, accompagnato da Otre, l’Uomonero che lo affianca, per svolgere il compito più alto e sacro: denutrire le speranze, sgonfiare le gioie, calpestare la volontà. Perché, dice, la vita fa male, poi ti tradisce, le illusioni crollano, e a nessuno venga in mente di maturarne. E tuttavia nel Regno qualcosa si muove: piccoli centri si ribellano un po’ dappertutto, gli Eroi del popolo sorgono qua e là, belli, biondi, con gli occhi azzurri.
Forlani crea un secolo XVII alternativo e la lingua barocca adatta a descriverlo: ogni soggetto, oggetto o atto è iperdefinito, semanticamente isolato in gabbie fatte di molteplici termini; spesso l’azione è descritta da più verbi che si inseguono senza vocaboli intermedi; la scomparsa delle virgole tra i sostantivi disposti in lunghi elenchi disegna paesaggi dove non esiste il vuoto.
Dunque Tristano è sì narrativa fantastica, avventura, ma è insieme ricerca stilistica, la scommessa di un romanzo di genere che sia letteratura come sperimentazione. Forlani abbandona ogni prevedibilità: i protagonisti sono i cattivi, ma non è detto che i buoni siano buoni davvero; alle esclamazioni epiche e ai sussurri cortesi di molta fantasy si sostituisce qui il turpiloquio degli Uominineri, la lingua veloce dell’avventura lascia il posto all’intensità, l’estensione alla pregnanza, i colpi di scena continui a una trama nella quale non accade tantissimo, ma tutto ciò che accade ha la fisionomia, più che di una disavventura accidentale, di un cataclisma cosmico; alla vuota descrizione di gesta e ambienti Forlani preferisce piuttosto la riflessione sui sentimenti, sui bisogni, su come è fatto l’essere umano, una riflessione che si trova proprio là dove non ce la si aspetterebbe: nel personaggio di Agnes, protagonista segreta, personaggio che vive in perenne stato critico, povera, alcolista, omosessuale, e insieme sorta di mistica fedele al Regno, pronta a morire per il Regno più di quanto non lo siano i suoi stessi rappresentanti; o nella tana degli Uominineri, bambini deformi che i genitori affidano al Regno ricevendo in cambio denaro che paga non il figlio, ma la vergogna del loro gesto, e che saranno cresciuti con amore da parte dei loro istruttori, Uominineri anch’essi, che insegnano a valorizzare le deformità, farne punti di forza.
Difficile non rinvenire un’intenzione simbolica nella composizione dell’ordinamento sociale e nello scontro tra il Regno e gli Eroi. La stessa affabulazione senza tregua esprime l’esplosione delle centinaia di potenze individuali, tra le quali nessuna si ritrae per fare spazio all’altra, in una sorta di spinozismo privo di salvezza, in un mondo dove ogni ordinamento possibile, ogni associarsi per via di metafisiche, ideologie e interessi comuni, favorisce la fioritura di determinate forme di vita, che esultano innocenti e spietate mentre altre sono escluse o schiacciate. Soffia forte, dalle pagine di Tristano, un vento di pessimismo e insofferenza verso ogni forma di potere.