Da dove sto chiamando: se mi baso sulle orecchie – ovvero ciò che sento in giro, al bar, in rete – mi sembra che le manifestazioni di un disagio italiano e pesarese rispetto alla più o meno reale esistenza di un regime si esauriscano nella denuncia dell’illegalità e di una presunta censura dell’informazione. Questo lo dico da un punto di osservazione particolare: un’inespugnabile roccaforte della sinistra (si fa per dire), dove a un pds-ds-pd, che da anni alimenta una considerevole percentuale di berlusconismo nel proprio dna e che oggi assomiglia ogni giorno di più alla Lega, si oppone (si fa per dire) una sinistra che di sinistra ha poco, con radici grilline, perennemente impegnata nel diffondere «l’informazione» e nell’indignarsi per l’illegalità in prospettiva sia locale sia nazionale.
Categoria: Riflessioni
Bondism
Tarantino è espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica, che non tiene in alcun conto i sentimenti e i gusti del popolo e della tradizione, considerati rozzi e superati.
Così Sandro Bondi a Panorama; lo apprendo da Vibrisse.
Al di là del fatto che definire elitaria e snobistica la cultura di cui Tarantino è espressione mi sembra ridicolo, mi domando: quale significato sta prendendo, nell’era Ratzinger, la parola relativismo? Prima fu “fate come se Dio ci fosse“, il che sottintendeva che senza Dio non si danno valori; qualcuno aveva fatto notare il nichilismo implicito in questa posizione, ma certo, in questo caso è faccenda anche teologica: c’è di mezzo lo statuto di Dio, persona e/o generatore o creatore di realtà etcetera.
Con l’affermazione di Bondi, però, il nuovo significato del termine relativismo va chiarendosi. Supponendo infatti ciò che mi pare lecito supporre, e cioè che Bondi sia d’accordo sul fatto che un giudice o una giuria debbano premiare ciò che è bello e di valore, l’affermazione di Bondi si può leggere solo così: sono i gusti e la tradizione di un insieme di persone (il popolo) a decidere cosa sia bello e di valore.
Ora, il popolo non è Dio, dunque non c’è spazio qui per le sottigliezze ontoteologiche: il popolo è semplicemente un insieme di persone, e quindi credere, come fa Bondi, che sia il popolo a decidere cosa è bello e di valore equivale a credere che il valore sia riducibile a una costruzione sociale. Che i valori siano costruzioni sociali è concezione legittima, generalmente nota come relativismo. La logica conclusione, dunque, è che, per Bondi, se non sei un relativista, sei un relativista.
Figli di un discorso minore
Scrive Enrico Franceschini su Repubblica, a proposito del nuovo libro di Hawking, The Grand Design:
[…] l’autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che “l’universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente” e dunque “non è stato Dio a crearlo”.
Ora, a parte che mi lascia sempre un po’ inquieto sapere che uno Hawking si sveglia una mattina e dice “Non fu Dio a creare l’universo!” come è capitato a me su per giù a dodici anni – e che un Dawkins scrive l’ottimo L’orologiaio cieco con il serio intento di confutare il creazionismo, e che una Hack si agita per argomentare che attorno al Sole non orbita una teiera –, ma quanto ci costa in termini concettuali una divulgazione di questo livello? Dalla fisica, la fede e la spiritualità hanno ben poco da temere, e anzi: ne usciranno ripulite dagli idoli che riposano il settimo giorno. Affermazioni come “l’universo si è creato dal niente” perché il Big Bang fu “una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica” mettono a rischio piuttosto l’attrezzatura filosofica media della popolazione: il pericolo insito nell’assimilazione massiva del pressapochismo concettuale è quello di non comprendere più il significato di termini come “nulla” ed “essere”, o non cogliere più la differenza tra fisica e ontologia; e una tale trasformazione dei concetti in idoli fisici può non essere propriamente un elisir per le nostre facoltà logiche e cognitive.
Due universi
Asophia, commentando questo post, in merito all’ipotesi tipografica (che non è l’ipotesi casa editrice a pagamento), dice di credere che vi sia una bella differenza tra scrivere su un blog e “scrivere un libro che verrà editato (nel senso di “pubblicato”, NdJ), per l’aspetto cartaceo in sé, per avere tra le mani la propria creatività e annusarne le pagine e la bellezza di sfogliarle”.
Lì per lì stavo per rispondere con un altro commento; mentre scrivevo, però, mi sono accorto che avvertivo una certa difficoltà nell’esprimere il mio pensiero, e ho deciso che sarebbe stato più onesto scrivere un post, perché un commento è meno esposto.
Mi rendo conto di avventurarmi in un territorio delicato; non si parla più di case editrici a pagamento e quindi (forse) non si parla più di acquisto di titoli nobiliari. La questione è (forse) più sottile e tocca la sensibilità di chi si senta chiamato in causa, da una parte e dall’altra. Ciò che vorrei provare a fare è tratteggiare una differenza tra due universi che mi pare di vedere, ma posso farlo solo partendo dalle mie sensazioni, e dunque non è detto che nella descrizione delle mie sensazioni, che userò per tratteggiare questa differenza, possano ritrovarsi coloro che stanno da “questa parte”, non solo perché è possibile che essi stiano da “questa parte” con tutt’altri pensieri e sentimenti, ma anche perché è possibile che, per alcuni di loro, “questa parte” sia quella di chi non pubblicherebbe per una casa editrice a pagamento, e non quella, come è per me, di chi non pagherebbe per pubblicare. In ogni caso ringrazio Asophia per il suo commento, senza il quale non avrei avuto modo di scrivere questo post.
Egemonia e grandi narrazioni
Le due tavole sono tratte da Batman: The Killing Joke, di Alan Moore e Brian Bolland, DC Comics 1988, pubblicato per la prima volta in Italia da Rizzoli in allegato al numero 76 di “Corto Maltese”, nel 1990. Attualmente The Killing Joke è edito da Planeta DeAgostini.
Trecento Gundam
Immaginiamo titoli alternativi per questo articolo del Corriere della Sera: La madre butta via i Gundam, trentenne incendia la casa. La madre butta via i Gundam, otaku incendia la casa. La madre butta via i Gundam, lui incendia la casa. La madre butta via i modellini, uomo incendia la casa. La madre butta via i modellini, collezionista incendia la casa. La madre butta via i Gundam, collezionista incendia la casa.
Suggeriva l’altra sera il mio amico Fabio: “Avrebbero scritto ormai trentenne, e tra parentesi poi, se si fosse trattato di modellini di Valentino Rossi?”.
L’amor che move l’analfabetismo
Ciò che non mi convince, in certi discorsi che sento sull’editoria a pagamento, è il riferimento all’ingiustizia del trattamento riservato all’autore, al raggiro, allo sfruttamento di un sogno. Mi domando: raggiro di chi? E soprattutto: che tipo di sogno?
È il cuore che muove la conoscenza, dice Scheler: quanto più mi sta a cuore una cosa, tanto più la conosco, e non solo nel senso che l’amore rende il mio sguardo più fine, ma anche, nel senso più banale, che, se un argomento mi interessa, di quell’argomento mi interesso. Chiunque – non bravo, bravo, geniale – ami la letteratura può entrare oggi in contatto con decine di blog che di letteratura trattano, e, se la letteratura gli interessa davvero, lo fa. Allora non ci vorrà molto a capire, data la mole di post sul soggetto, come funziona l’editoria a pagamento, e che non è etica, non ti promuovono, non ti fanno l’editing, poi c’hai uno stigma sociale quindi non ti conviene, è un raggiro etcetera.
Raggiro. Va bene: raggiro. Rispetto questi discorsi perché so che sono a loro volta mossi dal rispetto per le persone, ma non riesco a non vedervi l’ennesimo esempio di riduzionismo della sfera etica alla legalità, di ciò che è giusto o bello a ciò che è legalmente lecito, una riduzione che infine si ribalta in una difesa del diritto del lavoratore/consumatore (l’autore a pagamento sembra essere insieme consumatore e lavoratore in modo curioso). Questo atteggiamento di riduzione, che non si manifesta nei confronti delle case editrici a pagamento, le quali vengono stigmatizzate anche se si muovono nella legalità, tende a non considerare l’aspetto più imbarazzante della situazione di chi con le case editrici a pagamento pubblica. Certo, ognuno è libero di fare quello che gli pare nei limiti consentiti dalla legge, e grazie al cielo, ma non è detto che tutto ciò che è consentito dalla legge sia bello. E magari sta lì a dirci qualcosa.
Fire fi the eternism
E qui, una volta per tutte, la nostra esatta opinione sullo spinozismo! Questo sistema non è fatalismo per il fatto che considera le cose ricomprese in Dio: giacché, come abbiamo detto, il panteismo non rende impossibile la libertà, almeno in senso formale; Spinoza deve dunque essere fatalista per una ragione completamente diversa e indipendente da quello. L’errore del suo sistema non consiste nel fatto che egli pone le cose in Dio, ma nel fatto che esse sono cose, nella sua concezione astratta degli esseri del mondo, anzi della stessa infinita sostanza, che appunto non è per lui che una cosa. Perciò i suoi argomenti contro la libertà sono completamente deterministici, per nulla panteistici. Egli tratta anche la volontà come una cosa, e dimostra per via perfettamente naturale, che per ogni decisione ad agire essa deve venir determinata da un’altra cosa, la quale a sua volta è determinata da un’altra, e così via all’infinito. Di qui l’assenza di vita del suo sistema, l’aridità della forma, la povertà dei concetti e delle espressioni, la spietata rigidezza delle determinazioni, che ottimamente si accorda con la sua astratta maniera di pensare; di qui anche per conseguenza la sua veduta meccanica della natura.
Persona e personaggio
Qualcuno disse che Orfeo il cantore abbia preferito perdere la “persona” Euridice, labile esistenza transeunte, in nome del “personaggio”, soggetto eterno di trasfigurazione poetica. Ritenendo magari, chissà, che la fama imperitura val bene una morte precoce. Non la pensa così il greco Achille però: ad Ulisse che lo consola negli Inferi rammentadogli come la sua morte in giovane età sia il presupposto di una gloria senza fine, risponde che un’eternità di gloria non vale un minuto di vita trascorsa alla luce del sole, fosse anche da schiavo. Meglio persona viva, anche per poco, che personaggio.
Oggi la questione è ancora più complicata. Il reality sta facendo saltare paletti ed equilibri faticosamente costruiti tra realtà e poesia, verità e rappresentazione. La stessa figura dell’artista e dello scrittore ne risente, perdendo l’ultima parvenza di “aura”.Qualcuno, ad esempio, non esita a chiamare i propri personaggi, tratti brutalmente dalla vita di tutti i giorni, con il loro nome di persona, riportando esattamente parole, riflessioni, confidenze tali e quali furono ingenuamente affidate all’orecchio avido dello scrittore.
Altri, poiché la scrittura è terapeutica, utilizzano le loro pagine per beffeggiare nemici, ex amanti, concorrenti. Nomi e circostanze possono mutare, ma i segni perché qualche accorto lettore possa riconoscervi i soggetti storici ci sono. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è insomma ammesso e anzi suggerito. Di solito è la scrittura di chi simula sotto un’apparenza di sdegno il puro risentimento. La rappresentazione distorta dell’altro è vissuta come curativa e appagante. Uno sfogo cattivo. Oggi però si chiama Reality book.
L’artista, insomma, è in generale uno con il pelo sullo stomaco? E l’arte è di sua natura spudorata?
L’articolo Scrittori e Vampiri di Roberta Borsani si trovava su Doctor Blue e Sister Robinia.
Platania e Lethem
Lethem appartiene allo stesso gruppo antropologico di cui ritengo di far parte anch’io (insieme a chissà quanti altri milioni di abitanti del pianeta): persone che vivono la loro esperienza con la realtà attraverso unità atomiche di materia artistica (in altre parole: libri, dischi, film, fumetti, opere d’arte, etc.). […] Le case o le stanze in cui abitano le persone che appartengono a questo ceppo antropologico sono, per usare un’efficace espressione di Lethem, dei modelli in scala del proprio cervello. Pareti ricoperte di libri, CD, dischi, DVD, videocassette.
Qui l’articolo di Federico Platania.