Sabotage

Questo post era stato scritto in forma di dialogo, ovvero nella forma in cui sovente su questo blog vengono rappresentate le faccende che riguardano la logica e il linguaggio. Poi ho pensato che, essendo queste delle raccomandazioni al lettore che riguardano il modo di leggere i dialoghi (e i racconti in generale) ospitati su questo blog, è meglio che siano scritte in forma differente dal dialogo, onde limitare il pericolo che siano esse stesse oggetto della lettura scorretta di cui spesso sono oggetto i dialoghi, lettura scorretta che queste raccomandazioni al lettore vorrebbero appunto prevenire.

1. Il dialogo parla forse anche di te.
Se sei un conoscente dell’autore del dialogo e sei sicuro, malgrado le innumerevoli sbornie che ti concedi, che l’autore non abbia mai avuto con te una conversazione come quella che stai leggendo, non dedurne per ciò stesso che il dialogo non ti riguardi per nulla. Il più delle volte il dialogo denuncia una fallacia logica: non è attribuendo la possibilità di incorrere in quella fallacia logica esclusivamente al personaggio che la enuncia nel dialogo che da quella fallacia tu necessariamente sarai immune; né, peggio, leggeresti in modo corretto il dialogo stigmatizzando il personaggio non per la fallacia logica di cui è enunciatore ma semplicemente per quello che è (uno che non sei tu perché quella conversazione non l’hai mai avuta, o un interista mentre tu sei milanista o uno di destra mentre tu sei di sinistra o un interista mentre tu sei di sinistra e così via). Chiediti, in caso, quanto sia la fallacia a determinare il carattere, la maschera, il tipo del personaggio, a esserne la definizione (ad esempio: è interista perché chiamiamo “interista” uno che tifa così e così, oppure è di sinistra perché diciamo che è “di sinistra” uno che pensa cosà e cosà).

2. Il dialogo non parla di te.
Se sei un conoscente dell’autore del dialogo e il dialogo, mettiamo, parla di “linguaggio come malattia”, e, mettiamo, il dialogo è rappresentato mentre avviene al telefono, e tu hai avuto, mettiamo, una discussione al telefono con l’autore del dialogo incentrata su tutt’altro rispetto al contenuto del dialogo, non credere che il dialogo parli non di quello che c’è scritto nel dialogo e che invece parli di quello che non c’è scritto e di cui hai parlato con l’autore al telefono. Non crederlo, altrimenti fai come qualcuno che ultimamente è passato qua sopra e ha sentito solo “…knife…” come in Sabotage di Hitchcock ed è esploso lanciando accuse e/o maledizioni e/o commenti farneticanti che, almeno in un caso, ho provveduto a cancellare per fare un favore più al commentatore che al sottoscritto.

3. Il dialogo parla di te?
Se nel dialogo o in qualunque altro post ci si riferisce a personaggi di una qualche doppiezza tipo “quelli che hanno fatto x perché hanno ceduto alle pressioni” o “quelli che fanno finta di avere la coscienza a posto ma non ce l’hanno” e, senza che sia stato fatto il tuo nome o senza che qualcuno ti abbia preso a esempio come persona che si trovi in quelle condizioni, tu lamenti una presunta accusa che ti verrebbe mossa e/o inveisci senza argomentare all’indirizzo dell’estensore del post, sappi che in parecchi crederanno di poter riconoscere in te un soggetto che si trova nella condizione cui il post fa riferimento.

Naturalmente le tre raccomandazioni su esposte valgono anche per l’interpretazione delle tre raccomandazioni su esposte.

Il dubbio atroce dell'anarchico

Mi sono capitati per le mani due libri appena usciti: due romanzi, di due autori nuovi per due case editrici diverse. Di un autore la casa editrice pubblica la foto in terza di copertina. E la pubblica anche a pagina 4: tutta pagina 4. Autore carino, aria scazzata, vagamente persa. Leggi le note autobiografiche e scopri che ha trent’anni ed è musicista. Leggi il romanzo e trovi frasi come “allora gli accadde la cosa più assurda di tutta la sua vita”.
L’altro romanzo, consigliatomi da più parti, è di uno sceneggiatore televisivo di affermato successo, ed è pubblicato da una casa editrice che si occupa di cinema e di corsi di scrittura. Una casa editrice trasversale. Il risultato è il romanzo che ho in mano: una lingua non irragionevole ma appiattita su una forma da script, punteggiatura completamente sballata e – orrore – un recidivo doppio punto esclamativo.

Vai in libreria, butti un occhio sul banco delle novità e quando prendi in mano qualcosa hai paura di leggere la biografia: copywriter quando va bene; impiegati mediaset, musicisti, scultori quando va male. Bene o male, si pensa a lettori ai quali di leggere un romanzo non è mai fregato nulla. Tanto tutto – musica, direzione artistica, narrativa, poesia, teatro – è la stessa cosa: così ho letto sul sito di un tuttofare, un grumo di accenti assenti e discordanze di genere tenuto insieme dagli elastici dell’ideologia.

Il venir meno della forma letteraria nell’inseguimento della forma estranea, spesso televisiva – o anzi nella riproposizione della forma estranea, spesso televisiva, dato che vien da pensare che l’autore produca ciò che rumina –, non è argomento inedito. Inedita forse è la quantità di materiale riversato sul mercato editoriale in questo momento, e quindi la quantità di danaro che le case editrici decidono di investire in testi non-proprio-letterari (a.k.a. quantità di danaro che decidono di non investire in testi proprio-letterari).

Il dubbio atroce dell’anarchico rimane sempre quello: il prezzo della libertà è un livellamento verso il basso? è la fine della critica e della mediazione?

 

Post scriptum
Penso al prossimo vudéi del signor Grillo e alla proposta di abolire i fondi statali alla stampa – anche se quelle di Grillo non hanno quasi mai l’aspetto di proposte, bensì di mattanze al machete. Penso al pubblico di italia uno che decreta la sopravvivenza di qualcuno e la scomparsa di qualcun altro, ma senza che gli vengano forniti gli strumenti per abbracciare un orizzonte più vasto. Penso che poi in fondo è giusto. Davvero. Solo che fa schifo.

Cthulhu

Non ho letto il libro di Vito Mancuso, L’anima e il suo destino. Lui è anche simpatico, mi piace come parla. Un po’ meno quello che ha detto stasera da Gad Lerner: Dio c’entra con la scienza perché il Logos è ciò che tiene insieme qui i miei atomi.
Vero. Falso.
Vero e falso perché se il Logos è ciò che permette agli atomi di stare insieme quando secondo le sue leggi devono stare insieme, allora è anche ciò che permette agli atomi di dividersi quando per le sue leggi devono dividersi. E il Logos darebbe ordine al nulla, nel suo essere nulla, se l’insieme delle cause avesse prodotto il nulla, esattamente come dà ordine alle cose, nel loro essere cose, nello spazio in cui sono. Il Logos garantisce l’ordine della realtà, non è una cosa. Il Logos permette all’eccedenza, alla possibilità, al caos che sta nel fondo oscuro, nell’altro lato della realtà, di prendere una forma determinata nel tempo e nello spazio, di essere di istante in istante secondo l’unica possibilità che la configurazione del mondo permette in un dato istante.
È un concetto (motivato) ontologico, non una sostanza o una tensione fisica.
Mancuso sta cercando di fare un errore radicale e ci sta riuscendo benissimo: far di Dio un ente: roba da peccatori, secondo Eckhart. Portare Dio in una parte della natura, farlo stare in qualche posto nella natura: roba da Lovecraft.

Che due palle, Orazio

Spesso chi crede che la filosofia sia quella che insegnano pessimi professori di liceo abbandona ogni confronto dialettico di un certo spessore con la ritrita citazione “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante la tua filosofia ne possa sognare”. Fermo restando che 1. Shakespeare andrebbe anche letto oltre che citato; 2. della filosofia di Orazio risponde Orazio, e non l’interlocutore di turno; 3. un buon modo per distruggere scrittori anche interessanti come Shakespeare Wilde o Nietzsche è continuare a fare delle loro frasi slogan che alimentano la noia e infine la nausea; andrebbe spiegato di volta in volta al ripetitore d’aforismi – giusto per non rendersi complici della stagnazione – che il problema della filosofia non si pone tanto quando in cielo e in terra ci sono più cose che nella filosofia – eventualità serenamente considerata dal filosofare sui limiti della filosofia – bensì quando in cielo e in terra ci sono meno cose che nella filosofia. Il problema di avere nel mondo più cose di quante il proprio schemino ne consideri è un problema dell’ideologia, che ripudia la filosofia allorché questa potrebbe dimostrare che, appunto, ci sono più domande di quante l’ideologia ne possa tollerare.

Tu quoque Socrate

Si veda il Critone. Socrate è in galera, condannato alla cicuta. Critone vuole aiutarlo a fuggire, altrimenti gli Ateniesi lo considereranno un traditore degli amici. Socrate gli dice: ma ti rendi conto che non dovresti vergognarti di quello che pensa la gente di te, se ha torto? Ti rendi conto che dovresti vergognarti di vergognarti di una cosa come questa? Io non fuggo: ho stretto un patto con le leggi di Atene, ho scelto io di abitare qui, di sottostare alle leggi e di rischiare. Ora mi prendo le mie responsabilità. Non riesco a fare altrimenti: questa roba mi incatena come i ritmi dei coribanti.

L’interlocutore socratico, in genere, si vergogna solo di ciò che è sanzionato con il biasimo da parte della comunità, cioè si vergogna dei contenuti del suo pensiero e delle sue azioni, non della forma del suo ragionare. E si vergogna dei suoi pensieri biasimevoli solo se sono espressi o intuiti, e delle sue azioni biasimevoli solo se qualcuno vi assiste: se Socrate non fuggisse, Critone, pur se riconoscesse dentro di sé la validità dei ragionamenti socratici, si vergognerebbe di fronte agli Ateniesi.
Diversamente Socrate controlla continuamente Socrate sul piano formale: ho stretto un patto, dovrò rispettarlo; non posso permettermi X, non stringerò un patto in cui mi impegno a fare X. A Socrate non sembra interessare il biasimo o la lode sui contenuti: a Socrate sembra interessare solo la correttezza deduttiva, di cui lui stesso si fa testimone. Stante quella, lui non ha problemi.

Fila tutto liscio, a quanto pare, nel Critone. Però c’è da far caso a come fila tutto liscio. In questo dialogo non ci sono solo Socrate, Critone e gli Ateniesi di Critone.
Prima di tutto Socrate fa comparire il fantasma dell’Esperto, che è l’unico, dice, di fronte al quale ci si deve vergognare: l’Esperto sa riconoscere il buono stato dell’anima; tradotto dal socratico: sa vedere la simmetria delle opinioni e delle azioni.
Ora, non è che questo Esperto che non si sa dove stia ne sappia più di Socrate, dato che Socrate quella correttezza deduttiva la sta effettivamente mettendo in pratica. Ugualmente Socrate chiama a testimone questo fantomatico Esperto ponendolo come una figura esterna, probabilmente intendendo il dio.
Dopodiché, parlando degli impegni che ha preso con le leggi di Atene, Socrate fa comparire le Leggi. Dice a Critone: pensa se io fossi lì lì per fuggire e in quel momento arrivassero le Leggi a biasimarmi per la mia incoerenza. Non avrebbero ragione di svergognarmi?
E poi, quando morirò e andrò nell’Ade, non arriveranno le Leggi dell’Ade a farmi i medesimi discorsi? Caro Critone, come vedi non può fare.

Personificazioni. Queste sono personificazioni.
Nemmeno Socrate è riuscito a farsi unico testimone di se stesso. Nemmeno lui è riuscito a fare a meno dell’idea di uno sguardo esterno che vedesse la sua coerenza.

De rerum paura (episodio 5 e ultimo)

Non facciamo i ciarlatani e dichiariamo francamente che a questo mondo non si capisce nulla. Soltanto gli imbecilli e i ciarlatani sanno e comprendono tutto.
Anton Čechov

Socrate e Joseph

Il teologo Joseph Ratzinger ha recentemente dichiarato che il cristianesimo non è una religione intellettualistica. Coerentemente con l’incoerenza, in molti, negli ultimi tempi, si sono riempiti la bocca con termini quali “natura”, “diritto naturale”, “relativismo”, “contronatura”, arrogandosi il diritto di definire la vita altrui con questi termini, combattendo la battaglia per nominare le cose, battaglia nella quale vince sempre chi ha più fretta. Chiedo scusa a me stesso, ma di questa gente io purtroppo non riesco ad avere alcun rispetto. Ma non è questo il punto. Scrivendo i post del De rerum paura ero consapevole che essi, plausibilmente, avrebbero contenuto errori logici, avrebbero potuto essere contestati mediante esposizioni diverse, probabilmente altrettanto, se non più coerenti, di quelle da me presentate. Esiste una vasta letteratura filosofica e scientifica nella quale è possibile rinvenire radici che sviluppino piante antagoniste. Sono esistiti pensatori enormi che probabilmente avrebbero soffiato via questo mio castello di carte solo respirando. E allora?

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De rerum paura (episodio 4)

La sessualità a modello procreativo si manifesta per quello che è: una cultura, i cui valori e i cui tabù riflettono il concetto di “natura” che vi è stato elaborato in relazione agli scopi della civiltà che l’ha espresso.
Carla Lonzi

L’assunto (2) secondo gli organi sessuali – Callicle e Clito

Callicle potrebbe infine svegliarsi dal suo torpore e, «come ho fatto a non pensarci prima!», potrebbe rispolverare l’opinione vieppiù diffusa secondo la quale la procreazione sarebbe il fine dell’atto sessuale. Questo non basterebbe a riportare in auge l’assunto (3) ma sarebbe sufficiente a restituire una versione dell’assunto (2) circoscritta alla “natura” degli organi sessuali: infatti, secondo questa longeva convinzione, sarebbe il nostro corpo, sotto forma di ormoni, a protendersi verso la procreazione, e il piacere del sesso altro non sarebbe che l’inconsapevole carota mediante la quale la specie si è riprodotta.
È singolare che qualche decennio fa Carla Lonzi proferì una sua versione dell’assunto (3) nell’ambito della battaglia per la liberazione della donna. Carla Lonzi predicò infatti un’”etica naturale”, una morale di ritorno alla “natura” che, limitando l’assunto (2) alla “natura” degli organi sessuali, combacia perfettamente con l’assunto (3): per Carla Lonzi la donna doveva rendersi conto che il suo organo sessuale non è la vagina, e comportarsi di conseguenza.

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De rerum paura (episodio 3)

L’assunto (2) secondo la predisposizione genetica

Se il nostro Callicle vivesse ai giorni nostri potrebbe affermare che in realtà la tendenza all’eterosessualità è universale, ma in certi casi viene sovrastata da tendenze opposte.
Potrebbe farlo asserendo che c’è un carattere naturale che appartiene a tutti gli esseri viventi che abitano il pianeta Terra: la spinta alla continuazione della specie. Senza attribuire alla specie la volontà di compiere un’azione in vista di una causa finale, immaginiamo che vi sia una predisposizione, sottoforma di DNA, alla ricerca della procreazione. Chiamiamo la tendenza generata da questa predisposizione “tendenza procreativamente corretta” e le tendenze opposte – che sa il dio da quanti desideri e accidenti possano scaturire – “tendenze procreativamente scorrette”.
Ora sarà d’uopo rilevare che le tendenze procreativamente corrette si manifestano sul piano dei desideri e dei comportamenti che ne conseguono (e non vedo come potrebbe essere altrimenti): ovvero la fisiologia “causa” dei modi di essere psichici.¹ Ora, se le tendenze procreativamente scorrette trionfano in me sarà necessario ammettere che, almeno sul piano psichico, la loro forza aritmetica si è dimostrata maggiore di quella delle tendenze procreativamente corrette. Ma non è necessario che le tendenze procreativamente scorrette trionfino: ci basta che ci siano, perché affinché i fenomeni psichici si verifichino è necessario che vi sia una fisiologia pronta ad accoglierli, che li renda possibili, che sia configurata in modo conforme o in modo da potersi conformare al loro verificarsi. Dunque è necessario ammettere che, accanto a una ipotizzata predisposizione genetica alla procreazione, esiste una predisposizione genetica, cioè una capacità del nostro sistema corpo-mente –prevista, quindi, dal DNA di cui esso è espressione – ad accogliere stimoli indifferenti o contrari alla procreazione. Domanda: una predisposizione genetica non è una predisposizione naturale?
Non può fare.

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De rerum paura (episodio 2)

L’assunto (2) secondo l’osservazione dei comportamenti

Il concetto di “natura” di Callicle è, come dire, “naturalistico”: probabilmente non ci starebbero dentro i computer, non si capisce quale sia lo statuto “naturale” degli uomini, forse non è chiaro nemmeno quello degli alveari, per non parlare delle dighe dei castori. Instaurando questa distinzione, in cui l’uomo appare come questo animale un po’ a metà tra l’animale e non si sa bene cosa, egli sembra cercare nella “natura” animale extra-umana qualcosa che doveva esserci anche nell’uomo prima che esso si corrompesse con la civiltà. In altri termini, come si è detto, egli sembra prendere a modello i fenomeni comportamentali del mondo animale.
Bene. Come funziona la costruzione della categoria di “naturale” secondo l’osservazione dei fenomeni del mondo animale? A quali fenomeni ci si riferisce? Tipici di quali specie naturali? Se Callicle mi rispondessse “degli animali non umani”, non traviati dall’artificialità della legge, potrei rispondergli che, per esempio, è cosa nota e documentata l’omosessualità presso i bonobo e altre specie. Callicle potrebbe allora regredire nella scala evolutiva alla ricerca di animali ancora meno “sociali”, e io potrei con buona ragione chiedergli se non sia lui ad andare contro natura, nel voler far dell’uomo una raganella.

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De rerum paura (episodio 1)

Assume Callicle

Duemila e circa quattrocentocinquanta anni fa alcuni sofisti contestavano l’ipocrisia e l’artificialità delle leggi umane, denunciando la loro mancata analogia con le “leggi di natura”. Platone ci ha lasciato, nel Gorgia, un meraviglioso affresco di questa tendenza critica, personificata in uno dei più temibili avversari di Socrate: Callicle.
Secondo Callicle, superuomo antelitteram, la “legge di natura” è la legge del più forte, mentre la legge degli uomini è la legge dei deboli. Tanti e deboli. Nelle parole di Callicle si avverte chiara la distinzione tra la rettitudine e la devianza, tra la salute e la malattia, tra la forza dell’uomo ferino e la debolezza dell’uomo civilizzato. Le sue convinzioni nascono da un’osservazione dei fenomeni “naturali”, con particolare riferimento alle altre specie animali. Da questa osservazione, Callicle trae la conclusione che conformarsi alle “leggi di natura”, e quindi, secondo lui, alla “vera natura umana”, significhi, per l’individuo, perseguire la ricerca del proprio bene, che per Callicle equivale al piacere, con ogni mezzo che egli abbia a disposizione. Per Callicle in una condotta del genere non v’è nulla di immorale: è “natura”. Rispettare le leggi e la collettività è solo un modo per non avere guai, dato che, purtroppo, le leggi esistono.
La morale di Callicle si basa su tre assunti:
1) che vi sia una “natura della specie”: la ricerca dell’utile e del piacere;
2) che siano possibili altri comportamenti: il rispetto del debole, la rinuncia al piacere;
3) che sia una buona etica il conformarsi a questa “natura”.

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