Lethem appartiene allo stesso gruppo antropologico di cui ritengo di far parte anch’io (insieme a chissà quanti altri milioni di abitanti del pianeta): persone che vivono la loro esperienza con la realtà attraverso unità atomiche di materia artistica (in altre parole: libri, dischi, film, fumetti, opere d’arte, etc.). […] Le case o le stanze in cui abitano le persone che appartengono a questo ceppo antropologico sono, per usare un’efficace espressione di Lethem, dei modelli in scala del proprio cervello. Pareti ricoperte di libri, CD, dischi, DVD, videocassette.
Il molosso. Passato e forme di vita. Il nostro presunto realismo, che è reale senso comune, non solo tende a ignorare la possibile natura aliena delle forme di vita passate (che poi in realtà il nostro presunto realismo tende semplicemente a ignorare il passato), ma tende anche ad accorciare il passato. Il molosso no: il suo passato è enorme, sconfinato. Dopo un breve capitolo, ambientato in epoca a noi quasi contemporanea – che sfocia in un finale visionario e ci ricorda, come Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che dal nostro mondo la magia è scomparsa, se è scomparsa, solo l’altro ieri –, la leggenda del cane sacro è ripercorsa attraverso i racconti di persone appartenute alle più diverse civiltà, otto capitoli: dal giovane superstite d’una razza d’uomo estinta a un guardiano di porci stanziato presso le paludi a ridosso dell’Appennino: Carabba ci rammenta che quelle che noi chiamiamo preistoria, protostoria e antichità sono periodi lunghissimi, rispetto ai quali l’arco di tempo che va dall’antichità classica al nostro presente è brevissimo: dunque quante vite, quante civiltà, quanti modi di vedere il mondo si sono succeduti?
Il molosso. La traduzione. Noi continuiamo a tradurre la Fisica di Aristotele e, in qualche modo, capiamo quello che c’è scritto; ma è possibile che noi non siamo – né possiamo far rivivere in noi – la stessa forma di vita dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele: lo stato cognitivo, lo stato emotivo, il linguaggio, le credenze, la biologia formano una complessità organica dalla quale appare impossibile separare uno o più elementi. Ora, le credenze sul mondo espresse nella Fisica di Aristotele sono per noi incondivisibili, dunque lo stato mentale dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele ci è precluso, però di fatto noi traduciamo la Fisica di Aristotele: capiamo il significato delle parole che vi sono scritte e il significato delle connessioni tra quelle parole. Procediamo in uno spazio di traducibilità, un sottoinsieme comune tra noi e Aristotele, un sottoinsieme probabilmente molto esiguo, sia rispetto alla nostra totalità antropologica sia rispetto alla totalità antropologica di Aristotele.
L’immaginazione al dovere è il nuovo numero di Collettivomensa. Letteratura, fumetti, foto e disegni di Walter Giordano, Vanni Santoni, Valerio Aiuti, Tuono Pettinato, Squaz, Simone Nigraz Pontieri, Simone Lucciola, Simone Cortese, Silvio Giordano, Sara Pavan, Rocco Lombardi, Riccardo Mannelli, Pino Casamassima, Peppe Fiore, Pentolino, Matteo Salimbeni, Massimo Pasca, Marco Purè, Marco Margarito, Marco Corona, Maicol e Mirco, Luca Batoni, Laura Giardino, Jacopo Nacci, Ivan Manuppelli, Isabella Nazzarri, Iacopo Barison, Gregorio Magini, Giulio Giordano, Giorgio Vasta, Gianni Solla, Francesco D’Isa, Francesco Cattani, Elena Rapa, Edoardo Olmi, Dottor Pira, Davide Reviati, Davide Garota, Claudia Ragusa e Andrea Coffami. Dentro c’è il nuovo episodio di Dreadlock.
La rivista verrà presentata ufficialmente a Firenze, l’11 Maggio alla Cité in Borgo San Frediano. Da quel giorno sarà acquistabile lì, mentre per i non fiorentini è possibile richiederla via email a collettivomensa@yahoo.it.
Per dare un’occhiata a qualche anteprima de L’immaginazione al dovere: clicca qui e qui.
Per scaricare gratuitamente il numero precedente, Non si esce vivi dall’underground, in pdf, clicca qui.
Se vuoi dare un’occhiata programma completo della serata alla Cité, tutta a cura di Collettivomensa: Continua a leggere questo post
Su Il Fatto Quotiano è stato pubblicato uno scambio epistolare tra Nicola Lagioia e Antonio Ricci (la sequenza è: articolo di Lagioia, lettera di Ricci, lettera di Lagioia); lo scambio è riportato da Minima et moralia qui.
Nella lettera di Ricci si leggono tre argomenti.
Il silenzio è una reazione emotiva spontanea, ma è possibile opporre un discorso al discorso imposto dalla tecnica? L’analisi razionale della condizione antropologica. Il discorso biologico. Il discorso politico. Ma in questo modo è persa la dimensione squisitamente umanistica, la sola che davvero può illuminare un’assiologia.
In Corpo morto e corpo vivo (Transeuropa 2009) Giulio Mozzi ripete continuamente la formula: «la povera ragazza Eluana Englaro»: non lo fa quando parla del caso scientifico o del caso giuridico di Eluana Englaro: la formula entra nel testo quando al centro del testo è l’emergenza della persona dalla persona biologica e dalla persona giuridica, cioè laddove, in altri tipi di cornici e discorsi (telegiornali, social network, forum), ci si attende ormai automaticamente la strumentalizzazione affettiva nella forma dell’appropriazione dell’identità: la perdita dei cognomi, la moltiplicazione dei possessivi “mio” “mia” “nostro” “nostra”, fino alla manifestazione, nei pronomi del me e del noi, di pretese ripercussioni: «mi mancherai».1 Nella formula «la povera ragazza Eluana Englaro» non vi sono solo il nome e il cognome, che già allontanano il lettore da quell’assunzione di un’intimità indebita, ma anche un sostantivo e un aggettivo, come un distendere le braccia e le mani e le dita da parte dell’autore per porre tra sé e l’identità del soggetto la maggior distanza possibile.
Un discorso che tratti come una cosa quella parte di me che è una cosa non mi sembra una riduzione a cosa. Per esempio rispetto alla biologia io sono una cosa, e se un biologo nel suo discorso mi tratta come una cosa per ciò che concerne l’ambito della sua materia, io non avverto alcuna mancanza di rispetto da parte sua nei miei confronti. Quando il biologo userà il mio nome, lo userà per riferirsi non propriamente a me, alla mia identità, ma alla cosa che ha le mie caratteristiche biologiche. Diversamente, rispetto alle mie emozioni e alla mia capacità di decidere, sono una persona, che è anche una cosa, nella sua base biologica, ma non è solo una cosa.
Sul caso relativo al finevita andato in onda in Italia negli anni appena trascorsi e in particolare l’anno scorso, non ho saputo trovare, per quello che rientra nelle mie capacità, alcuna alternativa al non nominare il nome della persona più di ogni altra coinvolta con il suo corpo e con la sua identità. Il nominare, in tutte le forme che mi sono venute in mente e in quasi tutte le formule di cui ho fatto esperienza, lo sento ricadere nel campo gravitazionale di un’antropologia che intuisco e che ancora non sono forse in grado di definire con precisione, ma che mi terrorizza. In tutte le forme che mi sono venute in mente e in quasi tutte le formule altrui di cui ho fatto esperienza, il nominare lo sento essere, in modo chiaro e distinto, uno strumentalizzare. Di tutte le strumentalizzazioni, quella ideologica mi sembrava e mi sembra il male minore. La strumentalizzazione che sento essere il male maggiore è quella che per ora, senza molta precisione, chiamo la strumentalizzazione emotiva, la quale avviene, mi sembra, per mezzo dell’appropriazione del nome e dell’immagine, ovvero dell’identità, e quindi, in un qualche modo, della persona.
Qui sopra la copertina del volume scritto – vi si trovano capitoli lunghi quattro pagine sulle quali, infatti, sono distribuite financo venti righe di parole, in lettere di grosso formato – e firmato da Omar Fantini. Potete trovarlo sul banco della libreria, accanto alle agendine, ai libri di aforismi, alle crestomazie delle imprescindibili opinioni di comici, calciatori e ospiti fissi di talk-show sul mondo in cui viviamo e sulla vita in generale.
L’assenza, in copertina, del volto dell’autore impietrito nella smorfia demente di occhi e bocca a uovo, con una mano di taglio alla nuca che mimi il configgersi degli anni ’80 nella coppa del trentenne o, più tradizionalmente, semichiusa a becco sul cucuzzo, nell’antico segno della scimmia citrulla, testimonia chi e cosa la storia ritenga tuttora, e si spera per molto altro tempo ancora, più importante. Ma anche indica quanto possa il subdolo nostalgismo.
Una domanda è emersa più volte, tra i commenti ai post di questa serie e le email ad essi relative che ho ricevuto: ma non si starà attribuendo un’intenzionalità che forse non c’è? Avevo già scritto nel primo post: no. Non si sta attribuendo un’intenzionalità, né la si sta escludendo. In entrambi i casi un tipo antropologico è in azione: non è necessario che l’agente abbia un disegno, il disegno è già dato nella pulsione a distruggere determinate realtà, a magnificarne altre. In entrambi i casi il risultato è che Colorado Cafè, come dice il mio amico Daniele, è il braccio armato del Bagaglino. Quello che Colorado Cafè fa, lo fa. Il che non dimostra che quello che fa abbia una parte fondamentale in un qualche disegno di soggiogamento di massa, può anche esserne un epifenomeno, la qual cosa non sarebbe comunque meno rivelatoria della cultura e delle condizioni psicologiche dominanti Ma visto che ci sono, faccio un’altra immaginazione. Qual è lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante della realtà italiana? Mi sembra ovvio che sia la televisione. Qual è stato il prodotto televisivo di più grande successo nella fascia ragazzi dalla fine degli anni ’70? Gli anime. La corsa agli anime da parte di ogni rete televisiva italiana lo dimostra a sufficienza. Dunque gli anime sono stati lo strumento di formazione, informazione e persuasione più importante di chi oggi ha su per giù tra i trenta e i quarant’anni. Questa è quella che mi pare una premessa vera.
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