Si è parlato di due atteggiamenti diffusi, manifestazioni di un unico pensiero: se questa cosa, la “cultura”, (-A) non ha regole, non ha logica, non ha complessità (e non preclude l’autoproclamazione attraverso il sostantivo magico: io sono un artista! io sono uno scrittore! io sono un poeta! io sono un filosofo!), e (-B) è astratta, vale niente più del suono delle parole che enuncia e sta, come si dice, cagata, allora è una cosa bellissima e tutti la onoriamo. Ma se la “cultura” non solo (A) rivendica la sua complessità (escludendo dal novero degli artisti, degli scrittori, dei poeti, dei filosofi chi desidera liberamente annettervisi), ma pretende anche di (B) dire la sua nelle questioni reali, davvero importanti, quotidiane, pratiche, ecco che chi (ha deciso che) non ha i mezzi per accedere alla complessità, e se ne sente escluso, nega rilevanza pratica alla “cultura”, perché ciò significherebbe ammettere che in lui o in lei manca qualcosa di rilevante (in alternativa c’è chi vede nella “cultura” una devianza, e negli “intellettuali”, cioè nei pervertiti, i fautori di un oscuro complotto ordito per sostituire la “cultura” alla normalità).*
Categoria: I predatori del chiaro e distinto
Introiezione del conflitto
La schizofrenia è esattamente, precisamente, modello dei rapporti di lavoro che ci interessano. La schizofrenia è il sostituto psicotico del conflitto di classe. Lavoratori dipendenti e autonomi, partite iva e contratti atipici, dottorandi e docenti precari, stagiste di un’organizzazione di eventi che non sanno se si stanno innamorando quando parlano con qualcuno o se questo contatto gli sarà utile per il prossimo vernissage e far bella figura con il capo, trentenni depressi e sessantenni che continuano a finanziare la vita dei figli sperando che un giorno questi li ricompenseranno. La distanza tra chi sfrutta e chi è sfruttato passa tutta per un conflitto interiore. E a lungo andare questa scissione – che non diventa mai dialettica – crea una sorta di abituazione, una cronicizzazione del disagio. Ossia: un dispositivo clinico per cui veramente penso possibile, normale, permanere in una situazione paradossale come quella di un quarantenne che vive da adolescente, o come quella di una ragazza che non capisce se l’innamoramento che sta cominciando a provare le potrà tornare utile per il suo lavoro di ufficio stampa. Un malessere sociale a cui, invece di riconoscerlo come coscienza di classe narcotizzata, diamo alle volte il nome di bipolarismo; in una specie di medicalizzazione della tensione politica.
Leggi Introiezione del conflitto di Christian Raimo su minima et moralia.
Nessuno uscirà vivo di qui
Continuiamo pure a dirci che il problema è Lui, che il problema sono le televisioni, che il problema sono gli Italiani (gli Italiani sono sempre gli altri) e a ritenerci del tutto autorizzati, intelligenti, simpatici e soprattutto mentalmente normali nel ripetere bungabunga sghignazzando, come se l’espressione fosse neutra, come se non si portasse dentro l’umiliazione e la reificazione delle donne che vige nella fogna merdosa che è l’ambiente da cui quell’espressione è saltata fuori, ripeterlo zompettando sulla terrificante sovrapposizione semantica tra sesso e stupro, come se potesse esserci, e come se facesse ridere, o si potesse ridere comunque, dal “popolo della rete” fino al patetico Elio, che a quanto pare fa ridere perché esiste, visto che la sua opera consiste nel ripetere su base musicale parole ed espressioni proliferanti dai bar ai media e dai media ai bar, e, assieme ai Morgan e ai Busi, nel fornire, a chi si dichiara fuori, chili di para-normalità per stare dentro comunque, ché un divano, un televisore e un biglietto per il grande spettacolo della circolare produzione e fagocitazione di polifosfati organici evidentemente sono ideali universali dell’umana natura. Poi dice che Ferretti è passato coi cattivi. Ohibò, questo è scandaloso. Poi dice che quelli delle battute da bar sono “loro”, quegli altri. Anche no. E che “Silvio Berlusconi non è il mio presidente”. Anche sì.
Radio Genica 2. La “cultura”
Fino a qualche anno fa avevo un problema con l’arte. Per questioni scolastiche (ho fatto il liceo classico), ho spesso frequentato persone che, provenendo da ambienti dove il visivo e il concettualmente sottile li si respira fin dalla tenera età, avevano sviluppato una comprensione (che sembrava innata) proprio per ciò che più difficilmente può essere spiegato. Questa difficoltà della spiegazione, a me, che quella facoltà non la avevo mai acquisita, dava sui nervi; il mondo dell’arte mi appariva esoterico, fino al punto di indurmi a pensare che di fatto non ci fosse nulla da comprendere: per molto tempo ho creduto che chi “scegliesse” di dire bellissimo di fronte a un quadro – che avesse magari meno di centocinquant’anni di storia – lo facesse per sentirsi e dichiararsi parte di un’élite intellettuale.
Radio Genica 1 e ½. Dire le cose
Ho sentito dire – in giro, al bar, in rete – che in parlamento, il giorno della fiducia, “Di Pietro le ha cantate a Berlusconi”, che “Di Pietro ha detto le cose come stavano”. “Di Pietro distrugge Berlusconi” recita il titolo di un ormai noto video (link tolto, causa scomparsa del video, NdJ), ovvero: Di Pietro chiama Berlusconi “stupratore della democrazia”, “spregiudicato illusionista, anzi: pregiudicato illusionista”.
Un paio di giorni fa Vendola (cioè lo staff di Vendola) ha pubblicato sul suo profilo Facebook queste parole: “Il lavoro fondamentale da fare è lo scavo nel suolo delle parole. Il centro sinistra oggi è un palcoscenico che non ha parole”. Molti commentatori hanno contestato questa dichiarazione.
Radio Genica 1. Informazione e formazione
Da dove sto chiamando: se mi baso sulle orecchie – ovvero ciò che sento in giro, al bar, in rete – mi sembra che le manifestazioni di un disagio italiano e pesarese rispetto alla più o meno reale esistenza di un regime si esauriscano nella denuncia dell’illegalità e di una presunta censura dell’informazione. Questo lo dico da un punto di osservazione particolare: un’inespugnabile roccaforte della sinistra (si fa per dire), dove a un pds-ds-pd, che da anni alimenta una considerevole percentuale di berlusconismo nel proprio dna e che oggi assomiglia ogni giorno di più alla Lega, si oppone (si fa per dire) una sinistra che di sinistra ha poco, con radici grilline, perennemente impegnata nel diffondere «l’informazione» e nell’indignarsi per l’illegalità in prospettiva sia locale sia nazionale.
Bondism
Tarantino è espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica, che non tiene in alcun conto i sentimenti e i gusti del popolo e della tradizione, considerati rozzi e superati.
Così Sandro Bondi a Panorama; lo apprendo da Vibrisse.
Al di là del fatto che definire elitaria e snobistica la cultura di cui Tarantino è espressione mi sembra ridicolo, mi domando: quale significato sta prendendo, nell’era Ratzinger, la parola relativismo? Prima fu “fate come se Dio ci fosse“, il che sottintendeva che senza Dio non si danno valori; qualcuno aveva fatto notare il nichilismo implicito in questa posizione, ma certo, in questo caso è faccenda anche teologica: c’è di mezzo lo statuto di Dio, persona e/o generatore o creatore di realtà etcetera.
Con l’affermazione di Bondi, però, il nuovo significato del termine relativismo va chiarendosi. Supponendo infatti ciò che mi pare lecito supporre, e cioè che Bondi sia d’accordo sul fatto che un giudice o una giuria debbano premiare ciò che è bello e di valore, l’affermazione di Bondi si può leggere solo così: sono i gusti e la tradizione di un insieme di persone (il popolo) a decidere cosa sia bello e di valore.
Ora, il popolo non è Dio, dunque non c’è spazio qui per le sottigliezze ontoteologiche: il popolo è semplicemente un insieme di persone, e quindi credere, come fa Bondi, che sia il popolo a decidere cosa è bello e di valore equivale a credere che il valore sia riducibile a una costruzione sociale. Che i valori siano costruzioni sociali è concezione legittima, generalmente nota come relativismo. La logica conclusione, dunque, è che, per Bondi, se non sei un relativista, sei un relativista.
Figli di un discorso minore
Scrive Enrico Franceschini su Repubblica, a proposito del nuovo libro di Hawking, The Grand Design:
[…] l’autore del best-seller internazionale Dal Big Bang ai buchi neri sostiene, sulla base di nuove teorie, che “l’universo può essersi creato da sé, può essersi creato dal niente” e dunque “non è stato Dio a crearlo”.
Ora, a parte che mi lascia sempre un po’ inquieto sapere che uno Hawking si sveglia una mattina e dice “Non fu Dio a creare l’universo!” come è capitato a me su per giù a dodici anni – e che un Dawkins scrive l’ottimo L’orologiaio cieco con il serio intento di confutare il creazionismo, e che una Hack si agita per argomentare che attorno al Sole non orbita una teiera –, ma quanto ci costa in termini concettuali una divulgazione di questo livello? Dalla fisica, la fede e la spiritualità hanno ben poco da temere, e anzi: ne usciranno ripulite dagli idoli che riposano il settimo giorno. Affermazioni come “l’universo si è creato dal niente” perché il Big Bang fu “una conseguenza inevitabile delle leggi della fisica” mettono a rischio piuttosto l’attrezzatura filosofica media della popolazione: il pericolo insito nell’assimilazione massiva del pressapochismo concettuale è quello di non comprendere più il significato di termini come “nulla” ed “essere”, o non cogliere più la differenza tra fisica e ontologia; e una tale trasformazione dei concetti in idoli fisici può non essere propriamente un elisir per le nostre facoltà logiche e cognitive.
Due universi
Asophia, commentando questo post, in merito all’ipotesi tipografica (che non è l’ipotesi casa editrice a pagamento), dice di credere che vi sia una bella differenza tra scrivere su un blog e “scrivere un libro che verrà editato (nel senso di “pubblicato”, NdJ), per l’aspetto cartaceo in sé, per avere tra le mani la propria creatività e annusarne le pagine e la bellezza di sfogliarle”.
Lì per lì stavo per rispondere con un altro commento; mentre scrivevo, però, mi sono accorto che avvertivo una certa difficoltà nell’esprimere il mio pensiero, e ho deciso che sarebbe stato più onesto scrivere un post, perché un commento è meno esposto.
Mi rendo conto di avventurarmi in un territorio delicato; non si parla più di case editrici a pagamento e quindi (forse) non si parla più di acquisto di titoli nobiliari. La questione è (forse) più sottile e tocca la sensibilità di chi si senta chiamato in causa, da una parte e dall’altra. Ciò che vorrei provare a fare è tratteggiare una differenza tra due universi che mi pare di vedere, ma posso farlo solo partendo dalle mie sensazioni, e dunque non è detto che nella descrizione delle mie sensazioni, che userò per tratteggiare questa differenza, possano ritrovarsi coloro che stanno da “questa parte”, non solo perché è possibile che essi stiano da “questa parte” con tutt’altri pensieri e sentimenti, ma anche perché è possibile che, per alcuni di loro, “questa parte” sia quella di chi non pubblicherebbe per una casa editrice a pagamento, e non quella, come è per me, di chi non pagherebbe per pubblicare. In ogni caso ringrazio Asophia per il suo commento, senza il quale non avrei avuto modo di scrivere questo post.
L’amor che move l’analfabetismo
Ciò che non mi convince, in certi discorsi che sento sull’editoria a pagamento, è il riferimento all’ingiustizia del trattamento riservato all’autore, al raggiro, allo sfruttamento di un sogno. Mi domando: raggiro di chi? E soprattutto: che tipo di sogno?
È il cuore che muove la conoscenza, dice Scheler: quanto più mi sta a cuore una cosa, tanto più la conosco, e non solo nel senso che l’amore rende il mio sguardo più fine, ma anche, nel senso più banale, che, se un argomento mi interessa, di quell’argomento mi interesso. Chiunque – non bravo, bravo, geniale – ami la letteratura può entrare oggi in contatto con decine di blog che di letteratura trattano, e, se la letteratura gli interessa davvero, lo fa. Allora non ci vorrà molto a capire, data la mole di post sul soggetto, come funziona l’editoria a pagamento, e che non è etica, non ti promuovono, non ti fanno l’editing, poi c’hai uno stigma sociale quindi non ti conviene, è un raggiro etcetera.
Raggiro. Va bene: raggiro. Rispetto questi discorsi perché so che sono a loro volta mossi dal rispetto per le persone, ma non riesco a non vedervi l’ennesimo esempio di riduzionismo della sfera etica alla legalità, di ciò che è giusto o bello a ciò che è legalmente lecito, una riduzione che infine si ribalta in una difesa del diritto del lavoratore/consumatore (l’autore a pagamento sembra essere insieme consumatore e lavoratore in modo curioso). Questo atteggiamento di riduzione, che non si manifesta nei confronti delle case editrici a pagamento, le quali vengono stigmatizzate anche se si muovono nella legalità, tende a non considerare l’aspetto più imbarazzante della situazione di chi con le case editrici a pagamento pubblica. Certo, ognuno è libero di fare quello che gli pare nei limiti consentiti dalla legge, e grazie al cielo, ma non è detto che tutto ciò che è consentito dalla legge sia bello. E magari sta lì a dirci qualcosa.