Come ho scritto nella prima parte, Il bisogno dei segreti ha la fisionomia di un campo di indagine morale, e questo soprattutto per il finale, che è un finale che cambia il senso di tutto ciò che è stato raccontato prima; ho scritto che in questo post parlerò del finale, e poi che ne terrò conto nei prossimi post, ma ho anche scritto, «lettore, che il romanzo è talmente intrigante che forse, anche se leggerai i prossimi post, quando aprirai il libro, te lo godrai ugualmente; forse, addirittura, quando aprirai il libro e comincerai a leggere, dimenticherai ciò che sto per dirti».
Nel finale del Bisogno dei segreti, Manuel, l’ex della protagonista Connie, è certo che Connie abbia avuto delle buone ragioni per mettere in atto il suo piano contro le persone che la circondavano, e propone un’interpretazione dell’agire di Connie, un’interpretazione che Connie accoglie. Ora, questa interpretazione si compone di due parti, che sono in effetti due spiegazioni – e Connie le conferma entrambe – ed è di questo dualismo che vorrei parlare, perché mi sembra che in questo dualismo ci sia uno dei segreti del Bisogno dei segreti.
Categoria: Romanzi
Resa di un recensore di Candida (parte prima)
Come ho scritto nell’intro, dentro la mia testa c’è un lungo tavolo, e su questo tavolo sono dispiegate le cartine geografiche che riproducono – o che io credo che riproducano – l’universo di Marco Candida. Eppure, come ho scritto sempre nell’intro, mi sono arreso: non recensirò Il bisogno dei segreti di Marco Candida, a meno che non si voglia considerare una recensione questa serie di post; di certo non è la recensione che immaginavo di fare. E, come ho scritto nell’intro, non ho scuse. Non ho scuse perché, nel Bisogno dei segreti, il Candida delle cartine geografiche dispiegate nella mia mente c’è: è nel mondo fatto di messaggi e paranoie; nel reale in cui si crea uno squarcio su un altro mondo che a sua volta determina una distorsione del reale; nel tema della vergogna; nei tratti del grottesco; nelle storie che stanno dentro altre storie.
Resa di un recensore di Candida (intro)
Ogni storia non è regolata da un conflitto ma da una relazione. A volte questa relazione può rimanere solo un tentativo. Altre volte può riuscire pienamente. Storie di popoli. Storie di Nazioni. Storie piccole. Storie grandi. Tutti soltanto tentativi di relazione. Toccami oppure Non toccarmi. Baciami oppure Non baciarmi. Vieni a casa mia oppure Non venire.
Marco Candida, Il bisogno dei segreti
(le frasi in Italique si riferiscono a un manuale di frasi fatte per imparare l’inglese)
Da giorni vorrei parlare del nuovo romanzo di Marco Candida, Il bisogno dei segreti (Las Vegas, 2011). E non ci riesco. Ho quasi sempre creduto di riuscire a comprendere la scritture e le storie di Candida, il loro senso, i loro sensi, i loro piani e di possedere le loro chiavi di lettura.
La prima cosa che scrissi su un romanzo di Marco Candida fu una recensione del Diario dei sogni (Las Vegas, 2008) che era anche un confronto tra Il diario dei sogni e La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007); poi continuai con una recensione di Domani avrò trent’anni (Eumeswil, 2008): in entrambi i casi mi erano chiare – o, almeno, credo che mi fossero chiare – le direzioni, i passaggi, i rimandi, le evoluzioni e le rivoluzioni di senso: nella mia testa c’era un universo candidiano di concetti e significati, i mutamenti del quale potevo comprendere – o credevo di poter comprendere – disegnando, ogni volta che leggevo un nuovo lavoro, una nuova cartina geografica – come le cartine delle terre fantastiche che si trovano nel Signore degli Anelli o nella Spada di Shannara – e confrontando ogni volta la nuova cartina con le precedenti.
Con Il mostro della piscina (Intermezzi, 2009) ero già andato un po’ in crisi. Però – mi dicevo – vabbè: è un romanzo completamente diverso, estemporaneo, appartiene a un genere particolare, e poi si sa che lo ha ideato tanti anni fa, quando non era ancora davvero // Marco Candida //, il Marco Candida delle cartine geografiche dispiegate sul tavolo della mia testa. E così, dicendomi queste cose, ho superato la crisi.
Ecco. Giorni fa ho letto Il bisogno dei segreti, che, lo dico subito, è un gran bel romanzo. E questa volta non ci sono scuse. Apertamente mi arrendo: non scriverò una recensione del Bisogno dei segreti, o almeno non scriverò il tipo di recensione che credevo avrei scritto. E nel raccontare questa resa, nei prossimi post, cercherò almeno di spiegare perché.
Prosegue qui.
Persone
Sabato 11 dicembre, alle 18.oo, presso il circolo l’Otto, parlerò con Federica Sgaggio del suo nuovo romanzo, L’avvocato G. C’è un’immagine che mi viene in mente quando leggo i romanzi di Federica Sgaggio, un’immagine in movimento. I personaggi di Federica Sgaggio sono mostri, e nel contempo sono davvero persone, cioè: Federica Sgaggio descrive dei mostri, e io, dai tratti che descrive, mi rendo conto che quei mostri sono persone, hanno facce e corpi da persone, vivono in un mondo di persone, e di conseguenza mi rendo conto che le persone sono mostri. Con mostri non sottintendo alcuna connotazione morale, penso al senso biologico del termine. Non voglio dire che Federica Sgaggio scriva romanzi di mostri: in realtà scrive romanzi realistici, e i suoi protagonisti sono persone.
Tentativo di autorecensione – parte seconda
Per la prima parte, vedi qui.
In Noi dobbiamo essere i genitori, Wu Ming 1 parla di asimbolia del dolore, ovvero ciò che accade quando non si è più in grado di percepire il proprio dolore e capita pure di ridere; lo dice in riferimento al tardo postmodernismo. Ecco, Tutti carini comincia con quell’ironia di secondo grado di cui si diceva nella prima parte, che è invece doppiamente dolorosa: per il dolore dell’io narrante, provocato dal suo rapporto con il mondo, e per l’incapacità delle parole, svuotate dal postmoderno delle formule giovaniliste, di dire la tragedia: parte considerevole della tragedia è quindi l’impossibilità di dire la tragedia: il retroterra culturale pop del protagonista, che sul piano della fabula gli si rivolta contro e lo allontana dal mondo, si manifesta sul piano dell’espressione anche come ciò che non permette all’io narrante di esprimere in-mediatamente il suo disagio: stando così le cose, essendo io narrante e protagonista la stessa entità, l’espressione non solo è specchio del contenuto, ma aggiunge un plusvalore di contenuto (dell’altro dolore) sul piano della fabula.
Tentativo di autorecensione – parte prima
La settimana scorsa mi sono ritrovato qui a parlare, per la prima volta dopo tredici anni, di Tutti carini, un libro che ho pubblicato, per l’appunto, tredici anni or sono. Nella discussione sono emersi alcuni punti che ritengo interessanti, frazioni di un discorso che mi gira in testa da un paio d’anni a questa parte, cioè da quando ho cominciato ad avere la giusta distanza per ammettere serenamente che Tutti carini non mi piace e per riuscire a vederne con lucidità gli aspetti interessanti.
Molosso e forme di vita – parte seconda
Il molosso. Passato e forme di vita. Il nostro presunto realismo, che è reale senso comune, non solo tende a ignorare la possibile natura aliena delle forme di vita passate (che poi in realtà il nostro presunto realismo tende semplicemente a ignorare il passato), ma tende anche ad accorciare il passato. Il molosso no: il suo passato è enorme, sconfinato. Dopo un breve capitolo, ambientato in epoca a noi quasi contemporanea – che sfocia in un finale visionario e ci ricorda, come Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che dal nostro mondo la magia è scomparsa, se è scomparsa, solo l’altro ieri –, la leggenda del cane sacro è ripercorsa attraverso i racconti di persone appartenute alle più diverse civiltà, otto capitoli: dal giovane superstite d’una razza d’uomo estinta a un guardiano di porci stanziato presso le paludi a ridosso dell’Appennino: Carabba ci rammenta che quelle che noi chiamiamo preistoria, protostoria e antichità sono periodi lunghissimi, rispetto ai quali l’arco di tempo che va dall’antichità classica al nostro presente è brevissimo: dunque quante vite, quante civiltà, quanti modi di vedere il mondo si sono succeduti?
Molosso e forme di vita – parte prima
Il molosso. La traduzione. Noi continuiamo a tradurre la Fisica di Aristotele e, in qualche modo, capiamo quello che c’è scritto; ma è possibile che noi non siamo – né possiamo far rivivere in noi – la stessa forma di vita dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele: lo stato cognitivo, lo stato emotivo, il linguaggio, le credenze, la biologia formano una complessità organica dalla quale appare impossibile separare uno o più elementi. Ora, le credenze sul mondo espresse nella Fisica di Aristotele sono per noi incondivisibili, dunque lo stato mentale dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele ci è precluso, però di fatto noi traduciamo la Fisica di Aristotele: capiamo il significato delle parole che vi sono scritte e il significato delle connessioni tra quelle parole. Procediamo in uno spazio di traducibilità, un sottoinsieme comune tra noi e Aristotele, un sottoinsieme probabilmente molto esiguo, sia rispetto alla nostra totalità antropologica sia rispetto alla totalità antropologica di Aristotele.
Francesca Bonafini, Mangiacuore
La ragazza del nord è colta, curiosa, è politicamente attiva, fa volontariato. E in una comunità di recupero, a Milano, conosce Alfredo, eroinomane romano in via di disintossicazione. Tra i due, apparentemente cosi diversi, sboccia l’amore. Per Alfredo liberarsi dal ruolo che si è ritagliato e in cui si trova ormai imprigionato è l’unico modo di salvarsi la vita. Con spirito di abnegazione l’una e riluttanza l’altro, i due si immergono in quel caos di insicurezza e paura che spesso si cela dietro alle maschere che indossiamo per sopravvivere a noi stessi e al mondo. La ragazza del nord non potrà sottrarsi alla resa dei conti con il suo lato oscuro. Il romanzo è narrato con due voci parallele che nel corso della storia si contaminano l’un l’altra: l’ottimismo straripante della ragazza del nord sembra contagiare, in una certa misura, anche la voce ora laconica ora rabbiosa di Alfredo; a sua volta l’incapacità d’agire di Alfredo si riflette sulla voce della protagonista. La contaminazione dei toni è dunque specchio della direzione in cui di volta in volta si muove il reciproco contagio emotivo. Il linguaggio è inteso ora come chiave per scoprire il senso della vita, ora come possibilità di invenzione, menzogna, barriera di superficialità eretta a suon di “ti amo” e “sto bene” per difendersi dal caos interiore che non si vuole esplorare, o ancora insulto che chiude ogni porta al dialogo donando un’arrogante sensazione di potenza. Emerge la disperata compresenza di incapacità di stare soli e impossibilità di dare fiducia, viene alla luce il male naturale e contagioso di un mondo teso tra menzogna e dolore. E il dolore è talmente intenso che le parole superficiali smettono di essere un male, e diventano una agognata sostanza con la quale narcotizzarsi.
Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.
Marco Candida, Il diario dei sogni
Questa recensione è apparsa sull’Indice dell’aprile 2008.
Verino Lunari, disoccupato e scrittore emergente, tiene un registro dei sogni provocatigli dal Cipralex, il medicinale con il quale cura i suoi attacchi di panico. Spesso, come episodi di una storia, i sogni di Verino compongono una narrazione parallela alla vita: nella paranoia del tradimento da parte degli amici, attività onirica e veglia si respingono, si rincorrono e si travolgono l’un l’altra. Altre volte sogno e realtà intrattengono rapporti di apparente contrapposizione: mentre Verino analizza se stesso e gli altri riducendo quasi ogni essere umano a cosa, nel suo sogno ogni oggetto respira. C’è poi il sogno che è pura invenzione, lampo della mente, ipotesi visionaria: donne che si nutrono dalle ascelle, letture del pensiero frammentarie, fantasmi che vogliono infestare una casa ma sbagliano indirizzo. Il romanzo è appassionante, la scrittura di Candida non ha mai flessioni. La narrazione su due piani richiama il bell’esordio, La mania per l’alfabeto (Sironi, 2007), e anche nel Diario dei sogni torna il rimando all’aforisma 84 della Gaia scienza sull’apparente inutilità della poesia: poesia e necessità, condizione dello scrittore e condizione del lavoratore ordinario si ritagliano ognuna un proprio mondo, e sono mondi con scale di valori inverse.