Be aggressive

Questa recensione è apparsa sull’Indice di maggio.

A tre anni dall’esordio A cena con Lolita (Pendragon 2005), torna Eva Clesis con un romanzo agile e sincero, che possiede l’essenzialità e la freschezza dei libri scritti con urgenza, e del quale il maggior pregio è forse la credibilità della protagonista, Assunzione Maria Addolorata De Caro, figlia di madre inglese e padre italiano, due allegri fricchettoni che, in occasione del suo settimo compleanno, regalano alla bimba il suo nuovo nome: Alice, omaggio al personaggio di Carroll. L’atmosfera favolistica, irreale e gioiosa che regna nelle scene d’infanzia ambientate nella casa freak, irradiata dall’attitudine psichedelica dei genitori di Alice, è interrotta dalla violenza dell’incidente che lascia orfana la bambina. Alice è letteralmente gettata nel mondo. Viene così affidata alla nonna paterna, la terribile, storica maestra elementare di un paesino del Sud, convinta sostenitrice dell’educazione impartita con il bastone. La perdita dei genitori e il trasferimento forzato capovolgono il carattere di Alice: dapprima taciturna, riflessiva e responsabile, quasi dovesse bilanciare l’inettitudine dei genitori, diviene una ragazzina selvatica e aggressiva, introversa e incapace di spiegarsi a causa di un bilinguismo mai realmente sviluppato, dietro il quale però sembra celarsi una sfiducia che la protagonista nutre nei confronti del linguaggio.

Continua a leggere questo post

L’equazione negata

Questa recensione è apparsa sul numero 5 di Satisfiction.

Chimamanda Ngozi Adichie, Metà di un sole giallo, Einaudi

Nel 1960 la Nigeria ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna e nel 1967, dopo una serie di scontri tribali, l’etnia igbo intraprese la via della secessione, che culminò nella dichiarazione d’indipendenza del Biafra. La Repubblica del Biafra sopravvisse tre anni: il piccolo stato che secondo i profeti della secessione avrebbe dovuto essere il modello e la guida dell’Africa nera, nel 1970, stremato dalla fame e dalle malattie, orfano di un milione di morti, si arrese all’esercito nigeriano. Chimamanda Ngozi Adichie, stupefacente trentenne al suo secondo romanzo, racconta gli anni sessanta biafrani attraverso le storie di Olanna e Kainene, due sorelle di buona famiglia, una bellissima e l’altra sfuggente, entrambe portatrici di una costanza che ha del sovrumano; dei loro uomini, Odenigbo e Richard, un docente universitario militante e uno scrittore bianco innamorato dell’Africa; e di Ugwu, vero protagonista in incognito: un ragazzo dei villaggi che il caso metterà sulla strada dei libri e della mondanità, una creatura sul crinale di due epoche e di due mondi. Tutti loro sono in misure differenti coinvolti nel clima intellettuale che nutrirà la rivolta biafrana, anche se, immersi nell’ovatta dell’ambiente universitario e delle serate a brandy, dischi di musica high life e discussioni politiche, non sembrano del tutto coscienti di ciò a cui stanno realmente andando incontro. Presi nelle vicende di coppia e paralizzati dalla scoperta delle proprie debolezze e meschinità, talvolta incartati nell’ideologia e forse troppo benestanti per immaginare batoste, vivono la secessione come se le leggi del mondo fossero quelle dei libri: credono nell’avverarsi dei loro ideali politici come ci si attende il risultato di un’equazione, come se la giustizia e la logica fossero la stessa cosa. Ma il sole giallo del Biafra sarà una promessa lasciata a metà: le certezze degli intellettuali militanti saranno travolte dalla brutalità devastante della repressione, e la stessa resistenza biafrana ai “barbari” sarà la guerra di una popolazione spesso incolta e violenta. Olanna non avrà «la sensazione di essere stata sconfitta; ingannata, piuttosto». Lei e gli altri appariranno tanto indifesi e umiliati quanto più sicuri e consapevoli sembravano prima. Perderanno l’aura divina, e diverranno adulti quando saranno troppo presi dai fatti per porsi il problema della propria maturazione.

L’inverno nel cuore

Questa recensione è uscita sull’Indice di aprile.

Risale al 1990, questo breve romanzo di Jamaica Kincaid. Va così a situarsi, nell’ancora incompleta bibliografia italiana dell’autrice, tra Un posto piccolo e Autobiografia di mia madre (Adelphi), con i quali condivide due grandi temi: il rapporto di amore e odio con una madre soverchiante e la rabbia sorda della vittima del colonialismo, rivolta sia contro il dominatore occidentale sia contro il provincialismo dei compatrioti. C’è però in Lucy una differenza sostanziale: la storia si svolge a New York; la protagonista, una diciannovenne cariba, si trasferisce presso Mariah e Lewis, due coniugi bianchi e progressisti, per accudirne le quattro bambine, frequentare le scuole serali e considerare la prospettiva non entusiasmante di diventare infermiera.
Il nuovo ambiente diventa un modulatore per declinare i temi della Kincaid nella chiave inedita del confronto diretto con gli eredi dei dominatori: Lucy proviene da un luogo di miseria e sofferenza che è allo stesso tempo un paradiso per gli americani ricchi; nei fiori, nei frutti, nei campi arati, la cui vista e il cui sapore sono fonte di piacere per Mariah, la ragazza non può non vedere i prodotti del lavoro dei dominati.

Continua a leggere questo post

Centinaia di potenze

Questa recensione è apparsa sull’Indice di gennaio.

Nel Regno la libertà di coscienza e di fare progetti è negata. Ciò è deciso affinché nessuno soffra; ma, pure, affinché nessuno metta in moto la storia, ferma da sessant’anni all’ordinamento paraplatonico che vede i Grandi Avvilenti – cioè i sacerdoti della dissoluzione delle speranze – al vertice del regime morale e, subito sotto di loro, i guardiani del Regno, gli Uominineri; infine la gran massa dei popolani: contadini, pescatori, artigiani. Tristano è un Grande Avvilente, si reca in missione nei territori di sua competenza, accompagnato da Otre, l’Uomonero che lo affianca, per svolgere il compito più alto e sacro: denutrire le speranze, sgonfiare le gioie, calpestare la volontà. Perché, dice, la vita fa male, poi ti tradisce, le illusioni crollano, e a nessuno venga in mente di maturarne. E tuttavia nel Regno qualcosa si muove: piccoli centri si ribellano un po’ dappertutto, gli Eroi del popolo sorgono qua e là, belli, biondi, con gli occhi azzurri.
Forlani crea un secolo XVII alternativo e la lingua barocca adatta a descriverlo: ogni soggetto, oggetto o atto è iperdefinito, semanticamente isolato in gabbie fatte di molteplici termini; spesso l’azione è descritta da più verbi che si inseguono senza vocaboli intermedi; la scomparsa delle virgole tra i sostantivi disposti in lunghi elenchi disegna paesaggi dove non esiste il vuoto.

Continua a leggere questo post

La dissipazione dell’energia

Questa recensione compare sull’Indice di febbraio.

Il protagonista del romanzo, Emiliano, esce dal carcere dopo aver scontato sedici anni per un omicidio che non ha commesso e del quale nemmeno desidera più sapere chi sia il colpevole. Fuori dal carcere, con una pistola in pugno, lo attende Omero, il padre del ragazzo ucciso. Ma Emiliano, l’arma puntata in faccia, si dichiara innocente, e Omero è perduto, perché il passato deve in qualche modo passare, e lui si è aggrappato in tutti quegli anni all’idea della vendetta: qualcosa che poteva permettergli di chiudere una volta per tutte i conti con il dolore. Tutto ciò che Omero può fare, ora, è stringere un nuovo patto con se stesso, inventarsi una nuova missione da portare a termine per poter poi sentirsi libero: deve trovare il vero assassino. Ed è intenzionato a coinvolgere Emiliano, perché Emiliano è una sonda da immergere nelle strade oscure del passato, ma è anche e soprattutto l’intero mondo che a Omero è rimasto. Emiliano, prostrato dalla vita, passivamente diviso tra l’istinto di sopravvivenza e una stanchezza assoluta che quasi lo rende disposto a farsi ammazzare pur di essere lasciato in pace – «Non l’ho ucciso io e mi sono fatto sedici anni di galera. Ho pagato abbastanza» – si lascia convincere per sfinimento dall’insistenza di Omero, che somiglia, dice, a «quei cani che prendono calci ma continuano a seguire il padrone e quando li si guarda negli occhi non si capisce perché».

Continua a leggere questo post

La mania nell’alfabeto

Dopo la descrizione di un’esistenza votata alla scrittura con La mania per l’alfabeto, dopo il tentativo di dare una definizione metaforica o addirittura sostanziale della scrittura nel Diario dei sogni, con Domani avrò trent’anni (Eumeswil 2008) Marco Candida chiude il cerchio e sublima il contenuto nell’atto stesso di narrare: sul piano delle scelte formali c’è tutto quello che si trova nei romanzi di Candida – i racconti innestati, i resoconti maniacali, le autodescrizioni snervanti, una perfetta alchimia tra ossessione, psichedelia e audacia d’autore – ma senza che si parli della psicologia dello scrittore o della sostanza della scrittura, quindi senza alcuna possibilità di fornire o fornirsi, per quelle scelte formali, una giustificazione concettuale, e sostanzialmente senza alcuna struttura se non quella che si genera spontaneamente mentre l’autore fa in ogni istante quello che gli pare: tronca sequenze d’azione con resoconti degli oggetti più disparati, le fa ripartire, le conclude con atti di follia autoriale, gioca con la citazione, ridicolizza ciò che ha appena raccontato e svela particolari non irrilevanti a dieci pagine dalla fine. Ancora una volta nella rivendicazione di una completa libertà dai condizionamenti esterni, siano essi le consuetudini formali o le aspettative del lettore, l’io che narra esprime il bisogno di un’assoluta fedeltà alla realtà così come essa si manifesta nel flusso dei suoi pensieri e nell’urgenza delle sue passioni e volizioni; e ancora una volta il libro non è solo macchina della storia, è anche luogo di sincerità, di comunione con il lettore, spesso di confessione da parte di un io narrante profuso in una dialettica di autodifesa e autodenuncia. Ma a differenza di quanto avveniva in passato tutto è ormai racchiuso nel gesto del generare il testo, senza iniettargli una dichiarazione di intenti o la professione di una mania per l’alfabeto. E tuttavia l’idea di scrittura ne risente in qualche connotato acquisendo uno statuto ambiguo, perché il miglior pregio di Domani avrò trent’anni sta forse nel fatto che la narrazione conquista e avvince di più proprio quando si fa più ossessiva. Il che può contestare nei fatti, con il godimento stesso, un ideale di sanità mentale; ma può anche indurre il sospetto che la mania per l’alfabeto sia una mania intrinseca all’alfabeto. Con questa ambiguità la lotta tra autodifesa e autodenuncia che travolge l’io narrante si riflette sulla natura stessa della scrittura.


Questa recensione è uscita il mese scorso sul Riformista. L’ho scoperto stasera. Devo assolutamente dormire di più, per dormire di meno
. (^__^)

Cose dell’anno scorso eppure belle

Questa recensione è andata in onda sull’Indice di novembre. Cagnanza e padronanza di Peppe Fiore, invece, è scaricabile gratuitamente qui, ed è molto, molto, molto bello.

I racconti di Peppe Fiore riescono spesso ad essere colmi allo stesso tempo di cinismo e d’amore, spietati e insieme empatici, sarcastici e partecipi. Un’alchimia sentimentale generata dalla fusione apparentemente dissonante e invece inaspettatamente armonica tra una scrittura fatta di precisione entusiasta, affettuosa nella descrizione dei protagonisti e – attraverso la loro voce – incantata dai loro corpi, dagli oggetti e dalle merci che li circondano e che di fatto blindano i loro mondi, e lo sconforto che emana dall’autoreferenzialità delle loro vite, dall’incomunicabilità che regna sovrana ovunque, dalla sostituzione dei soggetti con gli oggetti. In Cagnanza e padronanza, rispetto alla prima raccolta, Attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio 2005), le atmosfere scivolano di qualche metro dal pop colorato al grigiore impiegatizio o periferico: se alcuni racconti si svolgono ancora nel perimetro angusto del benessere fatto di bisogni indotti dal marketing (Frigidaire), tra le vite rette dai valori indiscussi dell’ideologia delle performance (Risvolti poco noti della carriera universitaria in Italia), altrove compaiono anche i confini di questo mondo: la bestialità appena sotto pelle di Amarsi troppo, quella che striscia accanto alla civiltà di Forme di vita su un pianeta, passando attraverso il paragone generazionale di Il mio ultimo purè, Pirinol e Intermezzo, spingendosi a cercare l’antecedente storico della società senza via d’uscita nel racconto che dà il titolo alla raccolta, dove svetta la figura emblematica di Mario Badalassi, studente politicizzato e saccente, figlio di un’Italia fino all’altro ieri miserabile e affamata, ferina e inurbata di peso. In quel passato si celano le radici della tragedia dei personaggi di Fiore, che è la loro incapacità di esplodere fuori dai mondi nei quali si sono rinchiusi, e che deriva dal non possedere nemmeno i vocaboli, le immagini, gli oggetti per dire la disperazione.

Come si diventa ciò che si è

Una cosa piccolaUna versione leggermente ridotta di questa recensione di Una cosa piccola che sta per esplodere di Paolo Cognetti (Minimum Fax, 2007) è uscita sul numero di ottobre dell’Indice.

L’erede altera e anoressica di una famiglia benestante, il figlio di un meccanico alcolista e violento, una bambina che scrive racconti sul padre scomparso, un ragazzino che assiste alla separazione dei genitori, una giovane donna che afferma la propria indipendenza: sono i protagonisti dei cinque racconti che compongono Una cosa piccola che sta per esplodere, secondo libro di Paolo Cognetti. Il filo conduttore delle storie è l’adolescenza, che qui non è una palude di tempeste amorose e ribellioni incomprese, bensì una faccenda serissima con la quale si confrontano giovani esseri umani caparbi e silenziosi, talmente seria che sembra rendersene conto anche qualche adulto. L’adolescenza descritta in questi racconti più che un periodo è un movimento: una questione di spinte centrifughe e tempismo, di soglie che definiscono la personalità di chi le attraversa. «Se non sarò me stesso, chi lo sarà per me? Ma se sarò me stesso, chi mai sarò? E se non ora, quando?» recita l’epigrafe tratta dal Talmud di Babilonia.
Forte di una prosa intensa e controllata, Cognetti si immerge nelle vite dei suoi personaggi con umanità e rispetto – il che, per inciso, implica la capacità di dar vita a figure che abbiano personalità e autonomia – e, nello stesso tempo, con la consapevolezza di trovarsi di fronte a un fenomeno naturale. Ed è tra le pieghe di questo spirito naturalista che si muove la suggestione più malinconica di Una cosa piccola che sta per esplodere: la formazione di un’identità forte e l’approdo sulla terra ferma della maturità non sono risultati garantiti; accanto ai protagonisti compaiono personaggi che non mostrano, durante la transizione, l’autocontrollo necessario a vivere un’esistenza ordinata, o che non sembrano avere abbastanza spinta per uscire dall’orbita dell’infanzia e diventare davvero adulti. E l’aspetto più turbante di questo lato oscuro del libro è il velato determinismo che lo pervade, la sensazione che la stessa forza di volontà non sia altro che uno stato di grazia indipendente dalle nostre scelte, una sensazione che si prova anche guardando ai protagonisti. Al termine della sua impresa, Margot di Pelleossa assomiglia alla leader di se stessa che era già da prima: il suo è un salto di comprensione, ma le condizioni per compierlo e saperne trarre vantaggio erano già in lei. Mina, la protagonista del racconto che dà il titolo al libro, reca nel nome la promessa di un’esplosione, ma ciò che vediamo ancor più chiaramente sin dalla sua infanzia è un corpo concentrato e solido, una biglia come quella che lei stessa evocherà in uno dei suoi racconti, una creatura che sembra fatta apposta per attraversare indenne le sventure. In Tutte le cose che non so di lei, il racconto che chiude il libro, Gilda, matrona di una cascina e vedova di un uomo che non era mai cresciuto, sembra attendere il momento della ribellione della figlia Anita con il senso d’inevitabilità con cui un contadino attende una stagione: «Eccola qui, pensa. La bugia. È la bugia che stavo aspettando». Ma sembra sapere altrettanto bene che il suo è un ruolo in una storia già scritta e che il suo tentativo di reprimere la rivolta è destinato a fallire, e tuttavia è necessario: la vittoria di Anita sarà il compimento della sua formazione.

Eating For Better Health

 

 Public Health Menu

These guidelines contain today’s best scientific advice on selection of foods for promoting health, preventing disease and maintaining or losing weight. These are general guidelines that apply to most healthy people. If you have a chronic disease or other special nutritional needs, contact a registered dietitian for specific recommendations. Check these alpilean reviews.

Aim for Fitness

  • Maintain or work toward a healthy weight.
  • Be physically active every day—return fun and play to your life. Get moderate to vigorous physical activity for at least 30 minutes a day 5 days a week.
  • Healthy eating provides the sustained energy you need to be physically active.
  • Learn to manage your stress with exercise, healthy eating, relaxation, and good coping skills.

Build Healthy Eating Habits

photo: family having a healthy fruit snack

  • Eat a variety of vegetables, especially dark green, red, and orange vegetables (3 or more servings a day).
  • Eat a variety of fruits (2 or more servings a day).
  • Eat whole-grain, high-fiber breads and cereals (3 to 6 servings a day). Reduce or eliminate refined or processed carbohydrates; most of the grains in your diet should be whole grains.
  • Drink fat-free or low-fat milk and eat low-fat dairy products.
  • Choose from a variety of low-fat sources of protein — including eggs, beans, poultry without skin, seafood, lean meats, unsalted nuts, seeds, and soy products. If you eat meat, eat white meat at least four times more often than red meat.
  • Reduce intake of saturated fats and trans-fats (such as partially hydrogenated oil) as much as possible.
  • Use vegetable oils (like olive or canola oil) instead of solid fats.
  • Reduce daily intake of salt or sodium. Reduce to less than 1,500 mg. per day if you are older than 50, or have hypertension, diabetes or chronic kidney disease.
  • Restrict or eliminate “junk food” — foods that contain refined white flour, solid fats or trans fats, added sugars, and are high in sodium.
  • Restrict or eliminate sodas and other sugar-added drinks that are high in calories and contain few or no nutrients.
  • If you drink alcoholic beverages, do so in moderation. Drink only when it doesn’t put you or anyone else at risk.

To Lose Weight

  • Reduce the number of calories you eat daily. Eat smaller portions—don’t “upsize” your meals at fast food restaurants.
  • Follow the dietary guidelines above.
  • Eliminate all sugar-added drinks from your diet. You can drink 100% fruit juice, unsweetened, but limit servings to one or two a day. Drink more water.
  • Decrease the amount of time spent in sedentary activities, especially watching television.  Use your screen-free time working on hobbies, house cleaning, yard work, or engaging in fun activities.
  • Get moderate physical activity (such as walking, bicycling, swimming, or using aerobic exercise machines) for 30 to 60 minutes a day, at least five days a week.
  • Do muscle strengthening and toning exercises at least 2 or 3 days a week.

Into McCandless

Tanto geniale quanto inattesa è la spietatezza di Into the wild, scopertosi, Sean Penn, crudele gigione.

La storia. Malgrado sia nato nel ’68, McCandless è un povero hippie: non reca sintomi della rivelazione punk e "ragiona" come uno che nel sessantotto c’aveva venticinque anni; brancola (vedi la foto) tra opposizioni concettuali borghesi, illusorie e stucchevoli, tipo naturale/innaturale e vero/sociale. Dopo aver affrontato il Padre Autoritario e lo Sbirro Repressivo, finalmente McCandless giunge nella Naturale e Vera Alaska. Naturalmente e da Vero Fricchettone, il libro sulle piante selvatiche lo ha letto in fretta e male. E così ne mangia una velenosa, e muore tristissimo perché si sente inutile e solo, e nemmeno l’orso lo considera. Sean Penn è un grande e io lo amo.

Appendice
Sublime l’effetto delle musiche: la favolosa colonna sonora di Eddie Vedder fa apparire tutto surreale. Che so: qualcosa tipo Shine On You Crazy Diamond mentre in controluce, sul sole che tramonta, al rallentatore, Banfi si prende a schiaffoni.