Fenomeni linguistici incontrollabili

Roberta De Monticelli, La questione moraleIl saggio di Roberta De Monticelli, La questione morale, ha il merito non irrilevante di offrire una ricognizione sui costumi di casa nostra – si parte da Guicciardini, si passa per Leopardi, si arriva a Corona e Ratzinger, a Bobbio e Zagrebelsky – portandone alla luce i presupposti filosofici, psicologici, culturali e politici, per porli all’attenzione di un lettore non necessariamente specializzato in filosofia e che però sia interessato, appunto, alla questione morale; l’operazione riesce, anche grazie al sostegno di una struttura semplice e chiara, in tre parti: “Male nostrum”, “Lo scetticismo etico” e “Tornare a respirare”, ovvero le radici del male, un falso rimedio che è parte del problema, e il rimedio reale.

Questo libro è soprattutto un gesto: da queste parti, infatti, non è per nulla scontato che la politica abbia qualcosa a che fare con la morale, e nemmeno che la morale possa essere oggetto di una riflessione in ambito morale. Si percepisce l’urgenza di estendere al di là delle pareti dell’accademia la discussione su temi che sì, sono tipicamente demonticelliani (assiologia fenomenologica, relativismo, nichilismo, decisionismo), ma che altresì rappresentano una strumentazione necessaria qualora si voglia realmente comprendere la nostra vita sociale e politica*; perché tanto si dice, di tanto si parla, ma ciò che sembra sempre sistematicamente fuori dal discorso sono le connessioni concettuali che il discorso implica, e il vocabolario necessario a dirimerle.

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Tentativo di autorecensione – parte seconda

Per la prima parte, vedi qui.

In Noi dobbiamo essere i genitori, Wu Ming 1 parla di asimbolia del dolore, ovvero ciò che accade quando non si è più in grado di percepire il proprio dolore e capita pure di ridere; lo dice in riferimento al tardo postmodernismo. Ecco, Tutti carini comincia con quell’ironia di secondo grado di cui si diceva nella prima parte, che è invece doppiamente dolorosa: per il dolore dell’io narrante, provocato dal suo rapporto con il mondo, e per l’incapacità delle parole, svuotate dal postmoderno delle formule giovaniliste, di dire la tragedia: parte considerevole della tragedia è quindi l’impossibilità di dire la tragedia: il retroterra culturale pop del protagonista, che sul piano della fabula gli si rivolta contro e lo allontana dal mondo, si manifesta sul piano dell’espressione anche come ciò che non permette all’io narrante di esprimere in-mediatamente il suo disagio: stando così le cose, essendo io narrante e protagonista la stessa entità, l’espressione non solo è specchio del contenuto, ma aggiunge un plusvalore di contenuto (dell’altro dolore) sul piano della fabula.

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Tentativo di autorecensione – parte prima

La settimana scorsa mi sono ritrovato qui a parlare, per la prima volta dopo tredici anni, di Tutti carini, un libro che ho pubblicato, per l’appunto, tredici anni or sono. Nella discussione sono emersi alcuni punti che ritengo interessanti, frazioni di un discorso che mi gira in testa da un paio d’anni a questa parte, cioè da quando ho cominciato ad avere la giusta distanza per ammettere serenamente che Tutti carini non mi piace e per riuscire a vederne con lucidità gli aspetti interessanti.

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Molosso e forme di vita – parte seconda

Il molosso. Passato e forme di vita. Il nostro presunto realismo, che è reale senso comune, non solo tende a ignorare la possibile natura aliena delle forme di vita passate (che poi in realtà il nostro presunto realismo tende semplicemente a ignorare il passato), ma tende anche ad accorciare il passato. Il molosso no: il suo passato è enorme, sconfinato. Dopo un breve capitolo, ambientato in epoca a noi quasi contemporanea – che sfocia in un finale visionario e ci ricorda, come Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci, che dal nostro mondo la magia è scomparsa, se è scomparsa, solo l’altro ieri –, la leggenda del cane sacro è ripercorsa attraverso i racconti di persone appartenute alle più diverse civiltà, otto capitoli: dal giovane superstite d’una razza d’uomo estinta a un guardiano di porci stanziato presso le paludi a ridosso dell’Appennino: Carabba ci rammenta che quelle che noi chiamiamo preistoria, protostoria e antichità sono periodi lunghissimi, rispetto ai quali l’arco di tempo che va dall’antichità classica al nostro presente è brevissimo: dunque quante vite, quante civiltà, quanti modi di vedere il mondo si sono succeduti?

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Molosso e forme di vita – parte prima

Il molosso. La traduzione. Noi continuiamo a tradurre la Fisica di Aristotele e, in qualche modo, capiamo quello che c’è scritto; ma è possibile che noi non siamo – né possiamo far rivivere in noi – la stessa forma di vita dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele: lo stato cognitivo, lo stato emotivo, il linguaggio, le credenze, la biologia formano una complessità organica dalla quale appare impossibile separare uno o più elementi. Ora, le credenze sul mondo espresse nella Fisica di Aristotele sono per noi incondivisibili, dunque lo stato mentale dell’uomo che viveva ai tempi di Aristotele ci è precluso, però di fatto noi traduciamo la Fisica di Aristotele: capiamo il significato delle parole che vi sono scritte e il significato delle connessioni tra quelle parole. Procediamo in uno spazio di traducibilità, un sottoinsieme comune tra noi e Aristotele, un sottoinsieme probabilmente molto esiguo, sia rispetto alla nostra totalità antropologica sia rispetto alla totalità antropologica di Aristotele.

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Le scuole teobaldiane – parte seconda

I calicantiani

Cézanne, Case sul bordo di una strada

Qui la prima parte di “Le scuole teobaldiane”

Non mi è particolarmente difficile incontrare l’esponente più autorevole dei calicantiani, Marta da Castelfidardo (intendendosi con Castelfidardo la via principale del Ghetto di Pesaro), dato che frequentiamo la stessa mente e abbiamo, grazie al cielo, gli stessi orari. Chiedo a Marta di parlarmi un poco della distanza che separa i calicantiani dai neoteobaldici.

– Siderale distanza, sicuramente. Non abbiamo mai capito certi tipi psicologici e le loro manie, troviamo angusti i loro immaginari; crediamo di guardare le cose con il giusto metro; non riteniamo corretto divinizzare un autore, non lo riteniamo corretto dal punto di vista dello studio né dal punto di vista morale: rispetto al primo, si rischia di non comprendere la sua costante ricerca, di ridurre la sua opera a una monumentale esposizione di un sistema fatto e finito; insomma, pensi a cosa si è fatto con Platone, come ha giustamente osservato Mario Vegetti. E poi, come dicevo, la divinizzazione dei grandi è scorretta anche sul piano morale: se escludi dal genere umano chi è capace di grandi cose, di fatto sminuisci il genere umano.

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Le scuole teobaldiane – parte prima

I neoteobaldici

Heikenwaelder Hugo, Universum, 1998
Heikenwaelder Hugo, Universum, 1998

Qui la seconda parte di “Le scuole teobaldiane”

Nella mia testa accadono di consueto cose inconsuete. Per esempio: nella mia testa esistono due scuole filosofiche che disputano sulla corretta interpretazione dell’opera di Paolo Teobaldi. La più antica di queste due scuole filosofiche, la scuola neoteobaldica, è una sètta d’ispirazione mistica; secondo i neoteobaldici l’opera di Paolo Teobaldi è la raffigurazione della totalità dell’Essere: una raffigurazione in fieri, perché ogni nuovo romanzo di Paolo Teobaldi che viene pubblicato rappresenta un piano dell’Essere rimasto nascosto fino a quel momento. Considerando cronologicamente l’opera di Paolo Teobaldi, dunque, i neoteobaldici ricostruiscono una struttura dell’Essere a sfere concentriche, che comincia dal centro dell’Essere, un nucleo oscuro e senza determinazione, e da lì si irradia progressivamente, sfera dopo sfera.

Il nucleo dell’Essere, per i neoteobaldici, è Scala di Giocca, il primo libro di Teobaldi, oscuro e insondabile. Oscuro e insondabile perché io non ho mai letto Scala di Giocca e, dato che i neoteobaldici vivono nella mia testa, per essi il nucleo dell’Essere è ineffabile, su di esso non si può dire nulla, è indeterminato, appunto, oscuro e insondabile. Il titolo stesso, Scala di Giocca, sarebbe un’espressione senza senso atta a rappresentare l’ineffabilità del principio (in realtà Scala di Giocca è una località in Sardegna, ma cerco di dimenticarmene per non privare i neoteobaldici della loro convinzione).

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Luca Ricci, La persecuzione del rigorista

Luca Ricci, La persecuzione del rigorista, Einaudi

Il giovane sacerdote di buona famiglia e salde ambizioni, inviato a trascorrere un breve periodo in un paese di montagna, è quanto di più lontano si possa immaginare dallo stereotipo del prete: uomo di mondo in ogni senso, completamente privo di dimensione spirituale, incarna una sorta di nobiltà decadente che si esprime nell’esercizio, sovente fine a se stesso, della capacità di imporsi, di negoziare, di esercitare pressioni ai limiti dell’estorsione; attorno a lui gli esponenti dell’altra parte dell’umanità partecipano all’azione nel ruolo di consapevoli pedine, cercando di guadagnarci ognuno il suo misero tornaconto. Del resto, questa è l’unica differenza sostanziale tra due forme di vita che si legittimano vicendevolmente, un dislivello minuscolo, tutto sommato, tra persone che sono tutte ugualmente colpevoli, in un mondo dove l’unica pietas sembra consistere nel riconoscere al prossimo – prete o contadino, donna o uomo che sia – il diritto a inseguire la sua personale meschinità, oltre la quale pare non esserci nulla che valga la pena di essere ricercato. Ciò che più sconforta e disorienta in questo libro è che non si nega la possibilità e il valore dell’innocenza, del bene, di un atto disinteressato, perché non ve n’è alcun bisogno: sono cose al di là dell’orizzonte e delle aspettative di chiunque, caso mai è la loro esistenza a dover essere dimostrata in un mondo dove la bassezza è il fondamento sostanziale di ogni elemento. Il protagonista è il signore di questa realtà: il suo mestiere sembra esser stato scelto perché un abito bisognerà pure indossarlo, la sua qualità è essere più bravo degli altri nello strappare risultati, il suo piacere è costringere il prossimo all’obbedienza, dedicarsi a una passione fredda, “il gusto d’incedere impettiti”; persino Dio, nella sua immaginazione, è solo l’ennesimo vecchio, non diverso da quelli che affollano le chiese, da sopportare con fastidio per ottenere qualcosa. Il suo unico motivo di frustrazione, la più temibile contestazione al suo mondo, è il contadino che non sa giocare a calcio, in nessun ruolo, e che tuttavia, sferrando dozzinali rigori rasoterra, segna sistematicamente; una grazia portata senza coscienza, un talento del tutto inutile, irragionevole, una manifestazione di gratuità che insopportabilmente pretende di esistere.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

Francesca Bonafini, Mangiacuore

Francesca Bonafini, Mangiacuore, Fernandel

La ragazza del nord è colta, curiosa, è politicamente attiva, fa volontariato. E in una comunità di recupero, a Milano, conosce Alfredo, eroinomane romano in via di disintossicazione. Tra i due, apparentemente cosi diversi, sboccia l’amore. Per Alfredo liberarsi dal ruolo che si è ritagliato e in cui si trova ormai imprigionato è l’unico modo di salvarsi la vita. Con spirito di abnegazione l’una e riluttanza l’altro, i due si immergono in quel caos di insicurezza e paura che spesso si cela dietro alle maschere che indossiamo per sopravvivere a noi stessi e al mondo. La ragazza del nord non potrà sottrarsi alla resa dei conti con il suo lato oscuro. Il romanzo è narrato con due voci parallele che nel corso della storia si contaminano l’un l’altra: l’ottimismo straripante della ragazza del nord sembra contagiare, in una certa misura, anche la voce ora laconica ora rabbiosa di Alfredo; a sua volta l’incapacità d’agire di Alfredo si riflette sulla voce della protagonista. La contaminazione dei toni è dunque specchio della direzione in cui di volta in volta si muove il reciproco contagio emotivo. Il linguaggio è inteso ora come chiave per scoprire il senso della vita, ora come possibilità di invenzione, menzogna, barriera di superficialità eretta a suon di “ti amo” e “sto bene” per difendersi dal caos interiore che non si vuole esplorare, o ancora insulto che chiude ogni porta al dialogo donando un’arrogante sensazione di potenza. Emerge la disperata compresenza di incapacità di stare soli e impossibilità di dare fiducia, viene alla luce il male naturale e contagioso di un mondo teso tra menzogna e dolore. E il dolore è talmente intenso che le parole superficiali smettono di essere un male, e diventano una agognata sostanza con la quale narcotizzarsi.

Questa recensione comparve sull’Indice del maggio 2008, ma non fu mai pubblicata su New-Clear Wordz.

Il sole esausto – Casshern Sins

Il caso di Kyashan è notevole. Se si dimentica, e non è difficile, la rivisitazione del 1993 – il legnosissimo Casshān (Kyashan il mito) – ciò che è accaduto negli ultimi anni al classico della Tatsunoko è eccezionale: nel film La Rinascita di Kazuaki Kiriya e nell’anime Casshern Sins di Mad House, Kyashan diviene di volta in volta il personaggio concettuale dell’autore, un soggetto privilegiato di riflessioni morali, antropologiche, teologiche. Kazuaky Kiriya si scontrava frontalmente con la serie classica, faceva di Kyashan, della sua storia e dei suoi comprimari gli speculari opposti del Kyashan, della storia e dei comprimari della serie classica, e così facendo esprimeva il suo dissenso rispetto alla visione del mondo sottesa alla storia originale; con Casshern Sins siamo apertamente al metadiscorso: Casshern, Friender, Luna e Braiking (mai così meravigliosamente mussoliniano) vivono la vita dei simboli, sono personaggi-concetto ai quali si riferiscono i personaggi-attori che si muovono nel mondo attorno a loro. Dunque, sia nel caso del film sia nel caso della nuova serie, non siamo di fronte a un sequel, ma a un uso libero di figure mitologiche entrate a far parte del patrimonio collettivo, le quali, comunque, funzionano concettualmente al massimo dell’energia solo se ricordate nelle loro incarnazioni precedenti.

Casshern Sins: da quando Casshern ha ucciso Luna (primo stordimento dello spettatore), nel mondo è comparsa la Distruzione, ovvero un processo di deterioramento la cui natura sta a metà tra il fisico e il metafisico. Come effetto dell’avvento della Distruzione è mutata la psicologia dei robot, i quali, prima virtualmente immortali e ora morituri, si considerano vivi, e naturalmente non vogliono morire, il che si risolve in una compulsiva caccia ai robot più deboli, cioè ai pezzi di ricambio, da parte dei robot più attrezzati alla guerra. Ma non è cambiata solo la loro psicologia: i robot, in modo inquietante, cominciano a disgregarsi quando perdono fiducia, convinzione. E appena muoiono, esalando l’ultimo soffio di coscienza, ecco che si polverizzano.

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