Il sole esausto – Casshern Sins

Il caso di Kyashan è notevole. Se si dimentica, e non è difficile, la rivisitazione del 1993 – il legnosissimo Casshān (Kyashan il mito) – ciò che è accaduto negli ultimi anni al classico della Tatsunoko è eccezionale: nel film La Rinascita di Kazuaki Kiriya e nell’anime Casshern Sins di Mad House, Kyashan diviene di volta in volta il personaggio concettuale dell’autore, un soggetto privilegiato di riflessioni morali, antropologiche, teologiche. Kazuaky Kiriya si scontrava frontalmente con la serie classica, faceva di Kyashan, della sua storia e dei suoi comprimari gli speculari opposti del Kyashan, della storia e dei comprimari della serie classica, e così facendo esprimeva il suo dissenso rispetto alla visione del mondo sottesa alla storia originale; con Casshern Sins siamo apertamente al metadiscorso: Casshern, Friender, Luna e Braiking (mai così meravigliosamente mussoliniano) vivono la vita dei simboli, sono personaggi-concetto ai quali si riferiscono i personaggi-attori che si muovono nel mondo attorno a loro. Dunque, sia nel caso del film sia nel caso della nuova serie, non siamo di fronte a un sequel, ma a un uso libero di figure mitologiche entrate a far parte del patrimonio collettivo, le quali, comunque, funzionano concettualmente al massimo dell’energia solo se ricordate nelle loro incarnazioni precedenti.

Casshern Sins: da quando Casshern ha ucciso Luna (primo stordimento dello spettatore), nel mondo è comparsa la Distruzione, ovvero un processo di deterioramento la cui natura sta a metà tra il fisico e il metafisico. Come effetto dell’avvento della Distruzione è mutata la psicologia dei robot, i quali, prima virtualmente immortali e ora morituri, si considerano vivi, e naturalmente non vogliono morire, il che si risolve in una compulsiva caccia ai robot più deboli, cioè ai pezzi di ricambio, da parte dei robot più attrezzati alla guerra. Ma non è cambiata solo la loro psicologia: i robot, in modo inquietante, cominciano a disgregarsi quando perdono fiducia, convinzione. E appena muoiono, esalando l’ultimo soffio di coscienza, ecco che si polverizzano.

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Zambot 3: la luna di Tomino

La famiglia Jin è approdata sulla Terra trecento anni fa in seguito alla distruzione del pianeta Biar da parte delle armate dei Gaizok. Ora i Gaizok attaccano la Terra. Kappei, Uchuta e Keiko sono tre giovanissimi Jin cresciuti per pilotare i tre moduli dello Zambot 3, il robot che difenderà la Terra dai Gaizok. Al di là dell’odio dei terrestri nei confronti dei Jin, ritenuti a torto causa dell’invasione (che peraltro è un motivo già presente in Kyashan), il canovaccio di Zambot 3 (Yoshiyuki Tomino, 1977) è a prima vista privo di qualunque originalità; le animazioni sono faticose, i disegni spartani; il mondo di Zambot è rudimentale, fatto di mare aperto o montagne rocciose. Un elemento particolarmente fastidioso poi è la rappresentazione dei Gaizok: il luogotenente Butcher entra sempre in scena con una risatina mefistofelica; le buffonate nella nave nemica sono patetiche, talvolta imbarazzanti.
Eppure a metà serie, all’improvviso, mentre stai per addormentarti, ecco che i Gaizok si travestono da protezione civile e cominciano a radunare profughi terrestri in campi di accoglienza fasulli. In questi campi i Gaizok operano i profughi installando nel loro corpo bombe a orologeria; dopodiché cancellano loro la memoria e li liberano. L’unico segno che distingue le bombe umane è una piccola stella viola sulla schiena, dove il diretto interessato non può vederla.
Tomino non si limita a raccontare questa storia, né a mostrare individui che all’improvviso esplodono. Entra nella vita dei personaggi e mette in scena la disperazione.

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La malvagità del bene – Mao Dante di Go Nagai

Non sia permesso ai demoni di infestare la terra con la loro iniqua presenza. Per questo i figli di Dio devono prepararsi alla guerra. Brandite il martello della giustizia e sterminate i demoni.

Dio
Mao Dante è un anime di Go Nagai tratto dall’omonimo fumetto del 1971, la cui pubblicazione fu interrotta per tema di blasfemìa. Storia: Belzebù e le sue truppe di demoni e satanisti tentano di risvegliare Dante, il campione dei demoni – un orrendo mostro partorito dai prolifici incubi del maestro – e conquistare la terra. A questo punto si potrebbe credere che la storia si dispiegherà secondo il consueto copione della lotta tra il Bene e il Male, e questo, in effetti, avviene. Solo che qualche puntata più in là cominciano a sorgere i primi dubbi sulla reale differenza tra i due plotoni, dato che i seguaci di Dio si macchiano di nobili crimini pur di vincere la loro battaglia. Eccezionale è la specularità di formule e visioni tra i due fronti:
Avrei voluto possedere la forza per resistere, per non cedere alle lusinghe di Dio, ma io sono un debole, un traditore, confessa Zenon, Signore delle Bestie, passato dalla parte di Dio.
Mentre i due eserciti si scannano facendo scempio di vite umane, ci si domanda quanto meno se la battaglia dei demoni non sia in qualche modo meno ipocrita della battaglia condotta dalla controparte divina. Ogni morale, sembra dire Nagai, ogni ordine, nella sua costituzione e nel suo mantenimento, richiede un sacrificio di vittime delle quali una sola basterebbe per rendere assurdo l’ordine stesso. E, tra due spietati, quello che non mente è in qualche modo meno antipatico – o, si potrebbe dire, più simpatico – di quello che mente.

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Il novissimo Kyashan – La rinascita

Stamane a Bologna è partito il future film festival. Alle undici di ‘sta mattina sono andato a vedermi La Rinascita, il discusso film tratto dalla mitica serie Kyashan. Il film verrà riproiettato questa stessa sera alle 23.00 al Capitol. Tecnicamente degustibus: se vi piacciono i video dei Prodigy, i videogiochi ultramoderni, i combattimenti dove si capisce poco e la paccottiglia techno-gotico-metallara, bé, allora dovreste andarci assolutamente. Per quel che mi riguarda, le parti migliori sono proprio quelle a musica sparata, dove l’effetto videoclip è almeno portato a estreme conseguenze. Identici restano i nomi dei personaggi e il costume di Kyashan, privo però (simbolicamente?) del casco, che viene distrutto da un’esplosione poco prima della rinascita del nostro. A volte, come nel caso della rivisitazione dei cupissimi scenari da seconda guerra mondiale, l’impatto della tecnologia disponibile restituisce vita all’estetica dell’originale trascinandola al limite; e chi come me ha adorato il cartone apprezzerà soprattutto l’unico combattimento revival tra Kyashan e un plotone di robot, realizzato dannatamente bene, tanto che viene da domandarsi se non era il caso di sfruttare le nuove potenzialità tecniche per girare un remake fedele all’originale. E invece no: il film è volontariamente l’opposto della serie originale: là Tetsuya si sacrificava di sua sponte e rinunciava alla propria umanità facendo di sé l’androide Kyashan, l’unico in grado di combattere gli altri androidi, quelli nazisti, decisi a sterminare il genere umano; diversamente nel film, dove Tetsuya muore in guerra e viene fatto rinascere forzatamente dal padre grazie alla biotecnologia; ancora, nella serie originale gli androidi erano indefinitamente più potenti e soprattutto più cattivi degli umani, i quali sviluppavano al massimo una forma di razzismo nei confronti dei robot (razzismo del quale Kyashan era spesso vittima); nella nuova versione tutti sono fascisti e guerrafondai, tutti sono cattivissimi e potentissimi, e i neo-nati non sono androidi bensì cadaveri rimaneggiati dall’aspetto e dalle motivazioni decisamente umani. Kyashan si risveglia in un mondo nel quale non voleva tornare, con il cuore reso impuro dalla guerra dove ha ucciso ed è stato ucciso, disorientato e incapace di prendere le difese di qualunque parte in causa, se non di quei villaggi i cui abitanti vengono sterminati (dopo essere stati bollati come “terroristi”) dai soldati nevrotici che eseguono entusiasticamente gli ordini più brutali e dei quali lui ha fatto parte nella sua prima vita. E la vita, anzi, la negazione del significato della vita è l’oggetto di critica preferito dagli autori: gli uomini uccidono e rianimano con una facilità di mezzi e una leggerezza d’animo che ha dell’incredibile, mentre è proprio l’unicità della vita a renderla densa di significato e di rispetto, e, circolarmente, è la comprensione di tale unicità che inibisce l’assassinio: in pratica, la tendenza alla rianimazione conduce alla tendenza a uccidere. La sentenza morale finale del film è di un pacifismo psicologicamente violentissimo: esistere genera il male naturale, quello degli altri più che quello interiore, cioè: esistendo non possiamo che fare male agli altri, quindi non-esistere o smettere-di-esistere è la redenzione, o almeno questo è quello che sono riuscito a evincere dal complesso, dato che a tre-quarti del film i sottotitoli sono andati a farsi benedire per riprendere pochi minuti prima del finale, e i dialoghi probabilmente più importanti – compreso il lungo monologo del supercattivo – ce li siamo figurati ascoltando il giapponese. Il pubblico è stato molto comprensivo: se fossi stato un fanatico che ha atteso per più di un anno questa anteprima e me l’avessero seccata così dopo aver intascato i miei sette euri non sarei stato tanto accondiscendente. Auguro agli spettatori delle 23.00 di incorrere in più felice circostanza.