Solero

Avatar
James Cameron, Avatar, 2009

Non si tratta di accusare di new age qualsiasi opera che non aderisca a un rigoroso materialismo e non si tratta di snobismo nei confronti del pop. Si tratta, più onestamente, di riconoscere la new age e un cattivo uso del pop là dove si manifestano.
Avatar. Partiamo dal dato più visibile in questo senso: i Na’vi sono terribilmente anni novanta, sono la versione in computer grafica di una brutta copia disneyana di un anime molto scarso, sembrano disegnati da un tizio che fa i cartoni animati a sei euro l’ora per la pubblicità di un gelato. È un’estetica ormai talmente diffusa – il muso piatto a leoncino, gli occhioni – che è difficile anche ricomporne le radici, ma fin da subito appare meravigliosamente mainstream. Ed è una parte coerente col tutto.

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Into McCandless

Tanto geniale quanto inattesa è la spietatezza di Into the wild, scopertosi, Sean Penn, crudele gigione.

La storia. Malgrado sia nato nel ’68, McCandless è un povero hippie: non reca sintomi della rivelazione punk e "ragiona" come uno che nel sessantotto c’aveva venticinque anni; brancola (vedi la foto) tra opposizioni concettuali borghesi, illusorie e stucchevoli, tipo naturale/innaturale e vero/sociale. Dopo aver affrontato il Padre Autoritario e lo Sbirro Repressivo, finalmente McCandless giunge nella Naturale e Vera Alaska. Naturalmente e da Vero Fricchettone, il libro sulle piante selvatiche lo ha letto in fretta e male. E così ne mangia una velenosa, e muore tristissimo perché si sente inutile e solo, e nemmeno l’orso lo considera. Sean Penn è un grande e io lo amo.

Appendice
Sublime l’effetto delle musiche: la favolosa colonna sonora di Eddie Vedder fa apparire tutto surreale. Che so: qualcosa tipo Shine On You Crazy Diamond mentre in controluce, sul sole che tramonta, al rallentatore, Banfi si prende a schiaffoni.

La sindrome di Pointbreak

Nel 2005 il mio amico Monsa pubblicò un pezzo intitolato La sindrome di Pointbreak sul forum di Cami74, nella sezione hip hop pesarese, sezione che oggi non esiste più. Credo sia importante che La sindrome di Pointbreak rimanga a galleggiare nella rete come una bottiglia che, invece di trasportare un messaggio, trasporta la riproduzione in scala di un veliero. Il veliero in scala dentro la bottiglia, infatti, non può portarti da nessuna parte; è un prodotto che nessuno si prenderà la briga di retribuire, realizzato da una forma di vita che, paradossalmente, il mondo ha contribuito a genererare, senza per questo volersi preoccupare delle conseguenze di una tale genesi.
Lunedì il prossimo post.

La sindrome di Pointbreak – di Monsa

Io, Chrystelle e Ippolito facciamo quasi 100 anni in tre e, nonostante io nuoti i 1500 stile libero molto più velocemente di quanto voi possiate immaginare, i miei 31 anni si vedono tutti e quelli di Chrystelle e di Ippolito, forse, ancor di più.

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Il novissimo Kyashan – La rinascita

Stamane a Bologna è partito il future film festival. Alle undici di ‘sta mattina sono andato a vedermi La Rinascita, il discusso film tratto dalla mitica serie Kyashan. Il film verrà riproiettato questa stessa sera alle 23.00 al Capitol. Tecnicamente degustibus: se vi piacciono i video dei Prodigy, i videogiochi ultramoderni, i combattimenti dove si capisce poco e la paccottiglia techno-gotico-metallara, bé, allora dovreste andarci assolutamente. Per quel che mi riguarda, le parti migliori sono proprio quelle a musica sparata, dove l’effetto videoclip è almeno portato a estreme conseguenze. Identici restano i nomi dei personaggi e il costume di Kyashan, privo però (simbolicamente?) del casco, che viene distrutto da un’esplosione poco prima della rinascita del nostro. A volte, come nel caso della rivisitazione dei cupissimi scenari da seconda guerra mondiale, l’impatto della tecnologia disponibile restituisce vita all’estetica dell’originale trascinandola al limite; e chi come me ha adorato il cartone apprezzerà soprattutto l’unico combattimento revival tra Kyashan e un plotone di robot, realizzato dannatamente bene, tanto che viene da domandarsi se non era il caso di sfruttare le nuove potenzialità tecniche per girare un remake fedele all’originale. E invece no: il film è volontariamente l’opposto della serie originale: là Tetsuya si sacrificava di sua sponte e rinunciava alla propria umanità facendo di sé l’androide Kyashan, l’unico in grado di combattere gli altri androidi, quelli nazisti, decisi a sterminare il genere umano; diversamente nel film, dove Tetsuya muore in guerra e viene fatto rinascere forzatamente dal padre grazie alla biotecnologia; ancora, nella serie originale gli androidi erano indefinitamente più potenti e soprattutto più cattivi degli umani, i quali sviluppavano al massimo una forma di razzismo nei confronti dei robot (razzismo del quale Kyashan era spesso vittima); nella nuova versione tutti sono fascisti e guerrafondai, tutti sono cattivissimi e potentissimi, e i neo-nati non sono androidi bensì cadaveri rimaneggiati dall’aspetto e dalle motivazioni decisamente umani. Kyashan si risveglia in un mondo nel quale non voleva tornare, con il cuore reso impuro dalla guerra dove ha ucciso ed è stato ucciso, disorientato e incapace di prendere le difese di qualunque parte in causa, se non di quei villaggi i cui abitanti vengono sterminati (dopo essere stati bollati come “terroristi”) dai soldati nevrotici che eseguono entusiasticamente gli ordini più brutali e dei quali lui ha fatto parte nella sua prima vita. E la vita, anzi, la negazione del significato della vita è l’oggetto di critica preferito dagli autori: gli uomini uccidono e rianimano con una facilità di mezzi e una leggerezza d’animo che ha dell’incredibile, mentre è proprio l’unicità della vita a renderla densa di significato e di rispetto, e, circolarmente, è la comprensione di tale unicità che inibisce l’assassinio: in pratica, la tendenza alla rianimazione conduce alla tendenza a uccidere. La sentenza morale finale del film è di un pacifismo psicologicamente violentissimo: esistere genera il male naturale, quello degli altri più che quello interiore, cioè: esistendo non possiamo che fare male agli altri, quindi non-esistere o smettere-di-esistere è la redenzione, o almeno questo è quello che sono riuscito a evincere dal complesso, dato che a tre-quarti del film i sottotitoli sono andati a farsi benedire per riprendere pochi minuti prima del finale, e i dialoghi probabilmente più importanti – compreso il lungo monologo del supercattivo – ce li siamo figurati ascoltando il giapponese. Il pubblico è stato molto comprensivo: se fossi stato un fanatico che ha atteso per più di un anno questa anteprima e me l’avessero seccata così dopo aver intascato i miei sette euri non sarei stato tanto accondiscendente. Auguro agli spettatori delle 23.00 di incorrere in più felice circostanza.