Altri Bolognesi

Questo racconto è stato scritto un anno e mezzo fa, di getto, durante i festeggiamenti per l’avvento prossimo del Cinese alla guida di Bologna. In realtà è un racconto d’amore, per una persona e per una città. La prima deludeva, la seconda stava per farsi perdonare, o almeno così sembrava. Paradossalmente, la chiusa ha più significato oggi di allora. Intanto, Bella Ciao rimbalza un articolo del Manifesto del 23 ottobre che – per quanto non mi faccia impazzire chi lo ha scritto – centra perfettamente il punto: per chi non è di Bologna: non fatevi infinocchiare: qua della legalità non si vede nemmeno l’ombra; chi fa il grosso con i deboli e si caga in mano con i potenti non è un difensore della legalità: è un vigliacco. Per quel che ci riguarda, lo avevamo già nasato.

Zishan ha preso le faxe nelle lattine da un litro e ride come un vecchio assassino che non si annoia mai di ammazzare. Però le tiene ancora, le vietatissime moretti di vetro da 66 nel frigo. La gente fa avanti e andrìa attraverso la porta stretta della kebabberia, minuscola e irripetibile funzione del mercato multidimesionale. Quella porta divide la luce bianca e bollente espansa nei due metri per due della kebabberia di Zishan dai sassi rossi e gialli imbruniti dalla notte del Pratello, dal selciato massaggiante da cui io (PS) e il Marchese (MI) sudiamo solo a guardarli, là dentro, Zishan e Nadim.

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Micragna non vuole morire

Il cellulare squilla. Il numero sul display non mi dice nulla. Rispondo:
-Pronto?
Un istante di silenzio poi sento:
-Nacci?
Conosco questa voce, non mi ricordo di chi è ma la conosco, l’ho già sentita e la vibrazione che passa dentro me non è affatto buona. Anzi, è proprio cattiva.
-Sì, sono io. Chi parla?
-Sono Begotti.
Dissolvenza.

-Nacci?
-Sì, sono io. Chi parla?
-Sono Begotti.
Cosa cazzo vuole questo adesso, perché questo strozzino schifoso torna dal suo giovane e già lontanissimo passato. Cosa cazzo vuole da me.
-Senta io ho visto che ci sono dei danni…
Porco lo sapevo porco.
-Che danni, scusi?
-Danni al frigorifero, che non si chiude cioè scatta e si chiude male e non si chiude, è capito, no?
-Ho capito che qualcuno ha spostato il frigo e non ha regolato i piedini, per cui il frigo pende e quando pende ed è aperto, dato il peso dello sportello, lo sportello non fa rientrare perfettamente l’interruttore a scatto della luce interna e dunque è contro quello che tocca. Basta regolare i piedini e rimettere sul suo binario l’interruttore a scatto della luce. Contento?
-No, è proprio rotto.
-Senta io sono uscito da quell’appartamento, il contratto non c’è più, lei ha controllato per due giorni di seguito e anche con il tipo dell’agenzia che tutto fosse a posto, io le ho consegnato le chiavi, lei mi ha consegnato le caparre e si è tenuto cento euri di acconto per venti euri di condominio che le faranno pagare forse ad aprile e per dieci euri di vetro del frigo che secondo lei potevano anche essere trentacinque virgola cinquantacinque e che ha dunque arrotondato a trentasei. Bona lé. Dopo due settimane mi chiama, mentre sto guardando la juve, peraltro, e mi dice che il frigorifero è rotto. Il frigorifero era sano quando sono uscito, lei lo ha visto, quindi non capisco proprio per quale motivo lei mi telefoni.
-Ascolta, io ti telefono perché speravo, perché ho sempre la massima cioè abbastanza fiducia in te, perché so che hai sempre pagato le cose che si rompevano e me le dicevi tu, quindi io ho molta fiducia in te.
-Ho pagato anche cose che non dovevo pagare e il frigo era a posto, è sempre stato a posto.
-Senti, io ho la fiducia a te. Ascolta. Il frigo ho fatto male io a non dirtelo subito sono stato semo io ma ce ne siamo accorti il giorno dopo che era rotto, la donna che ho messo là a lavarlo mi ha detto che era crepato, poi ci abbiam ragionato su e non possono essere stati quei nuovi perché si vede che è una roba vecchia.
-Se lo ha visto subito quando ancora i nuovi inquilini non erano entrati che bisogno ha avuto di ragionare se eran stati loro o no?
-Ascolta son stato semo io che non te l’ho detto e hai ragione però la donna mi ha detto anche che il vetro del frigo non è il suo e.
-Certo che non è il suo e ringrazi che non me lo sono portato via visto che si è tenuto trentasei euri di acconto per chiamare i tizi che fanno i peggiori frigoriferi d’Europa. Del vetro lo sapeva e se non glielo diceva l’onest’uomo che sono manco se n’accorgeva.
-Sì infatti io non ho detto che non lo sapevo, ho detto che non è il suo, è capito? Io ho sempre avuta la fiducia, in te, è capito? Il frigo è rotto è tutto crepato.
-Cos’è che è?
-E’ crepato sopra nella maniglia della plastica.
-Non lo era, e lei lo ha visto.
-Io non ho visto bene.
-E da me cosa vuole?
-Niente io capito perché io ho sempre avuto fiducia in te, mi son sempre trovato non bene benissimo, è capito? Quindi io speravo che il frigo non era rotto e che tu lo so che non sei stato tu ma magari qualcuno che è un cretino è montato sullo sportello del frigo perché sa che io non sono uno che fa pagare quello che non è da pagare e approfitta, è è capito?
-Io ho capito che lei dopo due settimane mi chiama per dirmi che è rotta una cosa che due ssettimane fa non era rotta. Quindi?
-Ascolta. Io ti o chiamato per la fiducia e tu non mi dici niente. A posto così. Ci sentiamo quando c’è da mandare quello che ti devo mandare e a posto.
-Arrivederci.
-Grazie. Arriveder- Clic.

-Che voleva lo strozzino?
-Comunicarmi con parole sue che mi ruberà tutti i cento euri di acconto che gli ho lasciato. Che fa la juve?

Io li chiamo i nomoteti

Appeso alla maniglia della finestra della cucina, il sacchetto della spazzatura contiene solo la metà della spazzatura. La seconda metà della spazzatura è al di sopra del sacchetto, o meglio, al di sopra della spazzatura che riempie il sacchetto: fazzoletti unti, scatolette di tonno, vaschette di mozzarella, i più svariati rifiuti dell’industia alimentare si inerpicano in spericolati pinnacoli per un’altezza pari a due terzi dell’altezza del sacchetto, sviluppandosi per una larghezza pari alla larghezza del sacchetto più un terzo. È spesso notevole mettere in rapporto il sacchetto della spazzatura con l’ultimo cassetto della cassettiera, perenemmente aperto a causa dell’enorme quantità di sacchetti di plastica che si è deciso esso debba contenere. Faccio un passo dentro la cucina. Sento qualcosa scricchiolare sotto le suole delle mie ciabatte. Torno indietro. Faccio la doccia, mi vesto, faccio colazione al bar con un cappuccino e una pasta ricoperta di glassa. Leggo il giornale. Penso a quello che loro mi hanno detto. Mi hanno detto che loro non esiterebbero a definire «pulito» ciò che vedono, ciò in cui vivono. Faccio cadere dalla felpa le briciole di glassa.
Dissolvenza.

Sono al mediomarket sotto casa. Ho un dubbio atroce. C’è solo una persona che può preoccuparsi di comperare i panni per il pavimento, e quella persona sono io. Il panno per i pavimenti è quella cosa che molti individui usano per pulire i pavimenti: lo si immerge in un secchio dove si è precedentemente versata una mistura di acqua e un qualsiasi prodotto igienizzante, lo si strizza, lo si getta sul pavimento e con uno scopettone lo si passa in ogni angolo. Anche a casa nostra si usa il panno per i pavimenti. Il nostro ora è in bagno, da circa un mese e mezzo. La mia specificità mi condanna a sentire un penetrante odore di escrementi ogni volta che gli passo accanto. Il mio dubbio è questo: il turno della cucina, il prossimo, sta a uno di loro; sempre che lo faccia, perché la settimana appena passata stava all’altro di loro. Che lo ha sistematicamente saltato, così, come si presta pochissima attenzione all’opinione di un pressapochista. Ora, la persona cui spetta il turno di questa settimana ha due opzioni: o saltarlo per il fatto che l’ha saltato il suo predecessore, e questo implica che io dovrò pulire la cucina; o obbligare il suo predecessore a fare il suo turno. Dunque: o io dovrò passare un’ora a cercare di lavare l’illavabile panno che ogni giorno allerta olfattivamente il mio sistema fisiologico, o dovrò comperare un panno nuovo e farlo trovare al posto di quello vecchio, o chi farà il turno userà il panno vecchio intriso di merda e lo passerà su tutta la superficie del pavimento della cucina.
Dissolvenza.

Sono impalato ormai da quattro minuti di fronte allo scaffale di panni e detersivi del mediomarket. Non riuscirò mai a lavare il panno che sosta nel bagno. Ma io so anche che se ora comprerò quel panno e non lo userò io per primo, quel panno la prossima volta sarà da buttare via esattamente come il suo predecessore. Dunque o vivo nella merda, o spendo dei soldi che non dovrei spendere, o perdo del tempo che non dovrei perdere a lavare il vecchio panno, o spendo dei soldi che non dovrei spendere e perdo del tempo che non dovrei perdere a comprare il panno nuovo, pulire la cucina e lavare il panno.
-Pippicalzelùngheee. Pippicalzelùngheee.
Mi giro e vedo una dipendente sulla trentina, occhialuta, col camice bianco a righe celesti.
-Pippicalzelùngheee.
Guardo nella direzione in cui lei sta guardando e chiamando. Vedo una ragazza che non ho mai visto, anche lei con il camice dei dipendenti. Ha i capelli rossi rossi, legati in due trecce ai lati della testa. Stava armeggiando china di fronte a uno scaffale con dei cartoni di succo di frutta tra le braccia, li appoggia sul pavimento e si dirige verso la tipa che la chiama «Pippicalzelùnghe».
-Vieni qui, che ti faccio vedere alla signora Zanotti.
Mentre la ragazza si avvicina seria, con il capo leggermente chino, la dipendente con gli occhiali la indica con un movimento del mento all’anziana cliente che le sta accanto con la borsina da cui escono gli sfilatini e i sedani. Sorridendo, dice con un pesantissimo accento veneto:
-Io la chiamo «Pippicalzelùnghe».
È molto soddisfatta. Vado alla cassa con il sacchetto che contiene tre panni per il pavimento. Pago. Esco. Sul marciapiede passeggiano due ragazze. Hanno i capelli rasati ai lati, il resto è un poco colorato di verde e arancione e intrecciato in dreadlock, sono vestite di cose scure indistinte, una dice all’altra:
-Secondo te è più bella la rana o la scimmia?
Dissolvenza.

Sono al trentasei di via Zamboni, la biblioteca di lettere con sala studio e angolo ricreativo per gli studenti. Di solito ci si finisce a fare il caffè anche se non si sta studiando là. Sono passato per salutare Giovanni, un ragazzo che si è laureato con il mio stesso relatore. In attesa che gli scada il contratto da portiere e torni a occuparsi delle galline, quando ha un po’ di tempo libero va al trentasei a leggere il giornale o libri di logica, inglese o grammatica italiana. Quando entro è nel cortile che parla con una ragazza vestita di abiti scuri, tra il grigio e il nero. È truccata abbastanza pesantemente e porta i capelli a ciuffi un po’ arancioni un po’ verdi, mentre un altro po’ di capelli son rasati.
-Ti presento Francesca- fa Giovanni.
-Piacere Francesca- faccio io mentre ci stringiamo la mano.
Lei sorride lievemente e mi squadra dalla testa ai piedi, poi dai piedi alla testa. Le sorrido anch’io. Lei apre un poco la bocca e mi gaurda torva.
-Allora?- fa Giovanni.
-Allora sto ancora a pensarci e intanto cerco lavoro. Ma rimugino.
-Perché ancora non hai compreso l’inelluttabile destino di quel maleficio che è la vita.
Francesca ha un sussulto, come se qualcosa fosse improvvisamente entrato dentro di lei e ne avesse preso possesso. Questo qualcosa la afferra alle caviglie e da lì le scarica lungo le gambe e la spina dorsale una lunga e poderosa scossa che le inarca la schiena all’indietro, che le conquista la bocca trasformandola nell’organo di un raglio, che le prende il braccio sinistro lo porta alla spalla di Giovanni e le fa dire:
-Graaande Giovaaanni!- per poi riprendere con quel raglio. Io taccio un poco. Saluto Giovanni. Esco dal trentasei.
Dissolvenza

Nel silenzio della dormitudo guardo dentro la cucina. La cornucopia appesa per un manico alla maniglia della finestra si protende disperante e muta verso di me offrendo alla mia vista l’abbondanza di confezioni di pasta e bottiglie di plastica vuote, tutte rigorosamente libere di espandersi al massimo della loro vacua capienza, ornate di filtrini oleati di marrone. La cornucopia si offre disperata: sa che il miracolo sta per terminare e il suo meraviglioso sostenuto (diverso dal contenuto) si riverserà a terra. Guardo verso il cassetto dei sacchetti, senza domandarmi, come avrei fatto un tempo, il perché del loro mancato utilizzo: a certe domande non c’è risposta, e, ogni volta che ho provato a rivolgere la domanda, ho avuto come risposta un volto inespressivo, la bocca semichiusa, lo sguardo fisso al mio, come se la domanda l’avesse posta il mio interlocutore. La normalità non va domandata, solo nominata. Il nome crea la normalità. Prendo un grande sacchetto giallo dell’Ecu e ci infilo la cornucopia, finalmente libera di rilassare la muscolatura. Afferro il barattolo del caffè: è vuoto. Mi faccio la doccia, mi vesto, scendo. Faccio colazione al bar. Pago, esco e vado al mediomarket. Compro un pacco di caffè, così domani mattina ho il caffè. Vedo la dipendente veneta che parlotta con una signora quasi identica alla signora di ieri, ci sono altre due ragazze ma non vedo la ragazza con i capelli rossi. Torno a casa. Uno di loro sta parlando a un cellulare, dietro ad una porta chiusa. Lo sento dire:
-Perché lei viene dalla montagna. Io la chiamo Heidi. Heidi, la chiamo, ché viene dalla montagna.
Mi chiudo in bagno. Vedo il panno per i pavimenti nuovo: non è più nuovo. È stato usato per assorbire qualcosa di giallo, ed è stato lasciato là, col suo tumore giallo addosso, affinché esso penetrasse dentro di lui e lo impregnasse, perché ciò che è pulito è cattivo.
Dissolvenza.

Nel silenzio della dormitudo guardo dentro la cucina. Lo spettacolo è maestoso. La grande busta gialla dell’Ecu è stata modificata, come l’Arcadia che da nave è diventata astronave, come il template standard del mio blogg. Ora è un’immensa cornucopia solo per metà gialla, per l’altra metà multicolore. Sulla sua sommità spicca imperiosa, ancora piena di acqua lattea, una vaschetta di mozzarella di bufala, inserita nella composizione per mezzo centimetro di lembo della parte superiore, dal lato non aperto. Sciami di moscerini pattugliano le superfici del loro pianeta. Non è più questione di toccare la cornucopia: qui è il minimo colpo d’aria, ma che dico, la minima vibrazione, ciò che può provocare la caduta. Facendo scricchiolare le ciabatte sul pavimento mi dirigo verso il barattolo del caffè. Lo afferro, e mentre i moscerini mi ballano intorno lo ripongo. Scendo al bar. Mentre bevo il cappuccino comprendo per l’ennesima volta che considero l’intenzionalità nella maniera sbagliata: io considero l’intenzionalità qualcosa di intenzionale, ma non lo è più, non nel senso di «intenzionalità cosciente»: essa è sepolta, agisce a livello neurovegetativo e si concretizza nella meticolosa ma non saputa distruzione dell’ambiente circostante.
Dissolvenza.

Mangio qualcosa in via Petroni. Per il caffè vado al trentasei di via Zamboni. Il ragazzo all’entrata mi conosce, mi ha visto passare centinaia di volte, avanti, indietro, però gli mostro ugualmente il badge. Vado alla macchinetta del caffè, quella robotizzata, con lo sportello che scorre e la mano meccanica che esce e ti porge il caffè. Incontro una ragazza che conosco. Ha i capelli arancioni e verdi, qualche pendaglio, vestiti scuri tra il grigio e il nero. Noto che ho solo cinquanta centesimi e la macchinetta indica che non c’è più resto disponibile. Faccio:
-Ciao Francesca, sei in fila?
Lei si gira, mi guarda torvo, non dice nulla, si volta di nuovo verso la macchinetta e come se parlasse a lei dice:
-Sì.
-No, perché ho cinquanta centesimi e la macchina non dà più il resto. Tanto vale non sprecarli, passo avanti e ne prendo due.
Non mi guarda, dice:
-Allora?
-Ti sto chiedendo se devi prendere il caffè, dato che ho cinquanta centesimi e la macchina non dà più resto…
Si volta, solo un istante, poi guardandomi i piedi:
-Uffa ma che cazzo vuoi? Sono in fila, sì, allora? Non posso? Che cazzo c’è che non va?
La ragazza davanti a lei preleva il caffè ed esce dalla fila. Lei mette dentro i soldi.
-Ti sto dicendo che ti pago il caffè.
Lei sbuffa, fa un gesto di stizza, respira a fondo, con voce calma, scuotendo la testa, mi dice:
-Sei arrogante.
-Perché sono arrogante?
Lei continua a scuotere la testa. Aspetto che se ne vada. Offro il caffè al ragazzo che sta in fila dietro di me. Lui è contento.
Dissolvenza.

Quando esco dal bar vado al mediomarket, con l’intenzione di prendere un succo di frutta all’arancio. C’è sempre la dipendente veneta sulla trentina e ancora una volta non c’è la ragazza nuova.
-Ei tu- sento dire dalla dipendente veneta da dietro di me, -ei, vieni un attimo qui, su.
Mentre imbocco il corridoio dei succhi di frutta quasi vado a sbattere contro una ragazzina con la divisa dei dipendenti. La guardo: è la ragazza nuova, ma non ha più i capelli rossi: ha i capelli neri, lisci e corti. Mi guarda per un istante, poi abbassa gli occhi. E obbedisce agli ordini.
Dissolvenza.

Chinese in helicopter

Yess boss, yess boss, yess boss, yes boss

Chinese in helicopter
A search fi pakistani
Policemen in de streets
Searchin da paki-beer
Soldiers in da fields
Multin’ da paki-kids

So if you continue to mult up de beer
We gonna burn up da sweet hills
If you continue to mult up de beer
We gonna burn up da towers peaks

Soldiers in de streets
Multin’ da paki-kids
Chinese in helicopter
A search fi pakistani
Policemen in de streets
Searchin da paki-beer

So if you continue to mult up de beer
We gonna burn up da Kinki
If you continue to mult up de beer
We gonna burn up da BlackB

We don’t trouble taglietella
We don’t trouble turtellen
We don’t trouble your crescenta
We don’t trouble motor show

Chinese in helicopter
A search fi pakistani
Policemen in de streets
Searchin da paki-beer
Soldiers in da fields
Multin’ da paki-kids

Aprile

-Sai- ha detto il Marchese col suo tono affabile, -io non sono del tutto convinto che l’ordinanza miri a penalizzare i pakistani, anche se effettivamente c’è un certo risentimento da parte di molti nei loro confronti.
Mi sono versato un altro bicchiere di pignoletto fermo, gli americani ai tavoli attorno facevano un casino del diavolo.
-Dici, Marchese?
-Bè, credo che anche i pub avranno delle perdite consistenti. Al Mutenye pare che abbiano fatto già delle multe, e i ragazzi si trovano nella condizione di dover fare gli sbirri sulla porta e fermare tutti quelli che escono con i bicchieri in mano. Poverini, sai che stress.
-Dici, Marchese?
-Hai visto il manifesto Cin cin del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione?
-Sì, l’ho visto, ma mi pare una cosa un poco fighetta, sarà la grafica. Non so, sono perplesso e filopakistano. Fuorisede, fuoristato, stessa merda. No? Poi quando farò i soldi andrò a farmi i frizzantini vestito con la grafica del manifesto Cin cin.
Abbiamo vuotato i bicchieri e siamo usciti sotto la pioggia. Quest’anno aprile è piovoso anche se tu sei qui. Forse ormai i pakistani sono diventati il simbolo di Bologna, per me, a forza di questo mio vivere in tesi, uscire alle undici e vagare per i diavoli miei da un pakistano all’altro, da una moretti all’altra, con la testa sempre troppo piena e il quaderno che mi hai regalato sempre troppo vuoto. È difficile prendere posizione, magari non lo farò più: scriverò dialoghi in cui io non compaio mai.

Io non so se voglio restare qui. Uscito dal corso, avevo la testa che mi scoppiava come i bidoni del rusco, e c’erano pezzi di robe anche fuori dalla mia testa come intorno ai bidoni del rusco in Piazza Santo Stefano. Sono entrato in casa che erano le otto e mezza. Ha squillato il cellulare, era Begotti, quello a cui pago l’affitto.
-Pronto.
-Senta io, a me, mi han detto delle cose, dei casini, a me queste cose non vanno bene micca.
-Eh?
Mi tolgo la giacca armeggiando col cellulare.
-Mi scusi, non capisco- gli ho detto, mi sono passato una mano sulla fronte, ho chiuso gli occhi.
-Senti io con te non ho mai avuto problemi, non ti ho mai chiamato per lamentarmi.
-Scusi, continuo a non capire: casini?
-Delle persone, ascolta, delle persone sono venute a lamentare con me: mi han detto che fate il casino la notte, e poi mi hanno detto anche dei traffici di mobili.
-Eh?- ho buttato il sedere sul letto, -cosa? Guardi, i mobili sono tutti qui, può venire a controllare.
-No, dico, che hanno detto, che i mobili sono stati spostati di notte.
-Eh?
-Insomma, ti sto parlando no, allora ascoltami insomma: qualcuno ha, si è messo a, spostare dei mobili di notte, ecco: la notte spostate i mobili e fate casino.
-Signor Begotti, io non so di cosa stia parlando.
-Senti io non voglio più aver lamentele dai condomini.
-Scusi, si può sapere chi si è lamentato?
Begotti ha cambiato voce, come se all’improvviso sorridesse:
-Eh, come sai, no, come si dice, si dice si dice chi è il peccato ma non il peccatore.
-Cioè lei mi sta accusando di cose che non sono mai successe raccontate da gente che non si sa chi è.
-Ascoltami, che sono più vecchio di te e ne so di più: la gente non si lamenta per, non si lamenta se non è successo niente, si lamenta per qualcosa.
-Sì, ma chi? Io voglio sapere chi si è lamentato di cose che non esistono. Voglio sapere perché non è venuto da noi a rinfacciarci cose che non esistono e invece è venuto da lei.
-Insomma,- ha gridato Begotti, -voi non potete fare il casino la notte, lo capisci o no.
-Io capisco che sono stanco morto, che la notte quando sono a casa lavoro al computer o mi guardo i dvd in cuffia, e puntualmente mi addormento, capisco che i mobili non si sono mai spostati, che se cade uno spillo mi sveglio e non mi sono svegliato. Capisco che qualcuno ha voglia di discorrere perché non ha niente da fare, e se casca una forchetta in cucina alle due di notte viene fuori che abbiamo fatto una festa fino alle sei, capisco che, e mi vergogno a dirlo tanto è banale, capisco che ancora c’è gente che decide che la forchetta è casino perché c’ho un orecchino nel naso e non vado in giro in giacca e cravatta.
-A me non hanno detto dell’orecchino, mi han detto del casini, dei casini che fate a notte. Dillo anche lì ai tuoi amici, insomma quelli che vivono lì con te. Che così non mi vanno bene micca, li ho visti come sono, cioè io non li conosco, però non voglio casini.
-Gli dirò che qualcuno che non si sa chi è si è lamentato di cose che non ci sono.
-Ecco diglielo.
C’è stata una pausa. Poi Begotti ha detto:
-Ti sento alterato.
-Sente bene.
-Non sei mai stato alterato con me.
-Ci pensi.
-Chiudiamola qui. Senti il tuo amico allora il contratto lo vuole fare, quando scade il tuo, o no? Io ancora non l’ho sentito micca? Neanche lo conosco io a.
-Scusi, prima il mio amico faceva casino, adesso vuole affittargli la casa.
-Lascia perdere il discorso di prima, il discorso di prima era, era di prima, adesso è il discorso di adesso: vuol fare il contratto o no?
-Che ne so io? Lo chieda a lui.
-Digli di chiamarmi.
-Arrivederci.
-Arrivederci.
Mi sono buttato sul letto e non riuscivo più ad alzarmi. Ho guardato l’orologio: erano le nove e sei, ho preso i grumi di forza rimasti e sono uscito, ho corso fino a Via delle Moline ma il paki stava chiudendo. Sono andato fino al Mutenye, a farmi una Augustiner.

-È assolutamente un’ordinanza razziale,- ha detto Cocìss.
-Dici?
-Certo, e poi lo hai detto tu. È chiaro che è così. I pub hanno solo da guadagnarci e Bologna vuole far fuori i paki. È oltremodo chiaro.
-Dici?
-Ma è ovvio. Lo hai detto tu.
Siamo andati a pagare i caffè. Accanto alla cassa c’era la petizione del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione. Cocìss ha firmato. Ce ne siamo andati sotto la pioggia. Non voleva smettere. Erano le sette e mezza. Sono passato in Piazza Verdi ed era il solito schifo. Sulla strada di casa, in Via delle Moline, sono entrato dal paki.
-Ciao bello, come va- mi ha detto il paki stringendomi la mano e poi portandosela al cuore.
-Bene tu?
-Bene, bene!
Ho preso due moretti, accanto alla cassa c’era la petizione del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione. Sono uscito, ho mandato un sms a Cocìss:
«anche i paki firmano la petizione, e la tengono sul banco».
Sono andato a casa, ho cenato, mentre guardavo ottemmèzzo è arrivata la risposta di Cocìss:
«i baristi fighetti intortano i paki, gli fanno fare propaganda, poi li fanno chiudere».

Ieri sono andato alle poste per pagare la bolletta. Quando sono rientrato, al terzo piano, sul pianerottolo, c’era Rusconi, in maglietta e pantaloncini. Era uscito sul pianerottolo così com’era, col freddo che faceva, con i calzini dentro le ciabatte, stava con le mani aggrappate alla ringhiera e guardava sotto. Mi ha visto salire le scale e ha detto:
-Eri tu?
-Ero io cosa?
-Eri tu che hai chiuso il portone, adesso?
-Sì, sono stato io, sono entrato.
-No, perché ho sentito che suonavano nella casa di qua.
-Sì, c’era una ragazza di sotto.
-Credevo che era la pubblicità, quelli che vengono a metterti la pubblicità- mi ha detto con lo sguardo sbarrato, -lo senti quando ti suonano e hanno l’accento degli importati.
-L’accento degli importati?
-Sì, importati, come quelli che vendono da bere, che adesso gli è arrivata una bella batosta, era ora, che li ho visti adesso che chiudono, ah ma gli sta ben.
-Ah, dice gli extracomunitari.
-Non se ne può più.
-Non se ne può più di cosa?
-Degli importati.
-Ah, già… Io salgo. Arrivederci Rusconi.
-Arrivederla.
Ho ripreso a salire, lui è restato un po’ a guardare nella tromba delle scale, e intanto ha parlato con la moglie che era in casa. Mi sono fermato e ho ascoltato:
-No, non era un importato, ah, ma col bastone nodoso io.
Poi ho sentito la porta che si chiudeva.
Poi sono entrato in casa.
Poi mi sono buttato sul letto e ho guardato la pioggia fuori.

Oggi mi sono svegliato e c’era il sole. Le previsioni dicono che domani tornerà la pioggia. Non ne avevo la benché minima voglia ma era necessario farlo: oggi o mai più. Ho preso lo spazzolino e l’ammoniaca. Sono andato sul terrazzo. Da sotto al vecchio mobile che teniamo là ho tirato fuori le due paia di scarpe con le quali ho pestato la merda. La mano sinistra dentro la scarpa, nella destra lo spazzolino intinto nell’ammoniaca. Ho cominciato a strofinare.

Rapporti, no?

Begotti mi chiama alle nove di sera e mi dice:
– Senti, per quella cosa che dicevi tu, si può fare, si può fare. Però bisogna che stiamo attenti. E poi bisogna che tu venga da me, così facciamo un po’ di conti.
– Quando? Domani va bene?
– Domani va bene, vieni alle tre e mezzo.
– Ok, alle tre e mezzo sono da lei.

Raggiungo Rah e andiamo all’Infedele. Prendiamo un nebbiolo.
– Te l’ho postato, te l’ho detto, – fa lui, – hai alzato il tiro, era ora. Lì per lì, quando ho visto New-Clear Wordz ho detto: ecco un bel progetto di Jago. Poi però non mi piaceva: Lan Tze non mi è piaciuto per un cazzo.
– Lan Tze era un sogno, un clima, c’è una contraddizione in fondo a Obiettivi e Sensibili: valorizzzare la scrittura in sé e per sé, come esercizio quotidiano senza pretese, e però cercare le nuove parole, per andare più in fondo: sto sempre a orbitare attorno al nulla come una cazzo di teologia negativa, e poi ’sta cazzo di tesi mi sta uccidendo i sentimenti, mi si è richiuso il terzo occhio, non sento un cazzo, e poi non ho nemmeno il tempo per stenderli, i racconti, e farli fermentare. E poi c’è anche… hai visto CapelliRossi?
– L’ho visto, è molto bello. Però vedi: è bello perché è puro, è genuino, è autentico, ed è anche scritto bene, però manca quella formalizzazione di mestiere, quella forma-racconto che fa lo scrittore consumato.
– Merda Rah, lo capisci che è quello che vorrei riconquistare e non è possibile? Non è più possibile perché la forma ti frega, e la tua spontaneità va a puttane per sempre. Mmuum quella roba ce l’ha nel sangue. Dovrei avere il tempo di ritrovare me stesso, la filosofia mi sta rendendo troppo analitico, troppo scientifico.
– Comunque va bene così – fa Rah, – quando c’è una contraddizione va sempre bene.

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