Franco sta spesso zitto

(un racconto di tredici anni fa)

Franco è alto e muscoloso, e quando sorride assomiglia a DeNiro. È simpatico, e sta spesso zitto. Prima faceva il falegname in una ditta. Era quando lavorava tutti i giorni e si svegliava ogni mattina alle sei e mezza. Tutte le mattine alle sei e mezza sentivo la sua radiosveglia, nell’altra stanza. Tre secondi di radiosveglia, poi una manata. E anche se la sera prima si era spaccato la testa, ed era andato a letto alle quattro con la pelle gialla, alle sei e mezza la radiosveglia saltava su a fare un gran baccano, e poi c’era la manata, il rumore della doccia, la porta di casa che sbatteva e il silenzio che tornava. Mi riaddormentavo.

Circa tre settimane fa mi sono svegliato – saranno state le nove e mezza – e ho trovato Franco che faceva colazione in sala, con un cappuccio e una brioche vuota, di quelle che si comprano in pacchi al supermercato. Gli ho domandato come mai fosse in casa. Mi ha detto che non si era svegliato. Ci ha pensato un po’ e poi ha aggiunto che, visto come stavano le cose, doveva assolutamente correre dal medico a farsi fare il certificato. Mezz’ora dopo si è alzato da tavola, ha preso la giacca dall’attaccapanni ed è uscito di casa. Quella sera siamo stati a casa a guardare la televisione.

Continua a leggere questo post

En-Sof Vs Horobi (Idaro no Mechadabu Rumaka 2) 2008 (ri-editing)

Il ciclone si sposta sulla pagina obbedendo a leggi digitali. Là dove passa le lettere sono prese nel vortice e le righe si sciolgono in nuvole bianche e nere. Il ciclone batte il mondo a due dimensioni di Documento1. Ti domandi quali significati assumano le lettere trasformate nel vortice dello screen saver. Il monitor irradia candore sulla tastiera e sulla scrivania di legno. Evoca lo spettro del bicchiere con le penne. Gli occhi ti bruciano. Li strizzi. Quando li riapri sullo schermo c’è ancora la landa di Documento1 sconvolta dalla furia della tempesta. Senti odore di scarpe da ginnastica e ganja. Da quando sei uscito dalla discoteca un allarme monotonico suona impietoso accanto al tuo timpano. Hai la testa appoggiata sulle gambe della ragazza. La ragazza è addormentata, attorcigliata e trasversale, senza cuscino, il viso rivolto al soffitto. Ha gli occhi chiusi ma sembra che guardi in alto. Ha ancora addosso i pantaloni militari e la maglietta NY. Ha un aspetto familiare. Il display della sveglia segna le sei del mattino. Cambi posizione, ti rovesci, abbracci la ragazza, chiudi gli occhi. Cerchi di disseppellire il mondo sonoro che scorre al di sotto dell’allarme monotonico aggrappandoti al rombo di un aereo o alle sirene giù in strada. Ora ricordi che la tribù dei pusher portava abiti costosi firmati Nike e Fila. I chioschi la foraggiavano di panini con salsicce e peperoni, e lattine a due carte e cinque. Le autoradio suonavano musica araba, funk e techno. I lampioni inchiodavano i colori sulla strada. Più in alto si levavano le torri nere. Se ti addormentassi di nuovo, ora, vestito, abbrancicato alla ragazza e al plaid, vi svegliereste all’ora di pranzo, sudati e infastiditi. Consideri che l’allarme monotonico non è spiacevole. Lo assecondi.
L’autobus percorre veloce la strada all’alba. La città si appresta a ruotare con il resto del pianeta. Nella diga silenziosa si stanno aprendo varchi. Tra poco il formicolìo di passi e voci dilagherà tra le architetture. La ragazza siede sulle tue ginocchia. Ha occhi stanchi e rossi che si nascondono dietro i capelli fini. Dietro di lei il cielo s’illumina piano.
– Cosa guardi? – domanda.

Continua a leggere questo post

Nei giorni 2008 (ri-editing)

It’s yourz
The world in the palm of your hand
It’s yourz

Wu-Tang Clan

Era venuto fuori in autobus, alle sei e tre quarti del mattino, mentre andavamo a prendere il treno per Firenze.
Mi aveva domandato:
– Hai spento il fornello?
Lì per lì non avevo capito di cosa stesse parlando. Il fornello. Rimase sospeso in aria senza alcun significato.
– Ah –  dissi poi, – il fornello! Oddio, no. Cioè: non no: non mi ricordo.
– Come non ti ricordi.
Rimanemmo lì a guardarci, aggrappati ai tubi dell’autobus, nella luce blu del primo mattino.
– Prova a ricordarti: devi ricordarti.
– Oddio, non mi ricordo, veramente.
– Cavolo, –  ridacchiò lei – non l’hai chiuso.
– No, no. È solo che non mi ricordo. Vabbè. Non mi ricordo nemmeno di aver messo i pantaloni, ma non sono in mutande. Non preoccuparti, su.
Ma ero io quello preoccupato.

Continua a leggere questo post

Zion Train 2008 (ri-editing)

Pensa a una cosa che le accade prima di addormentarsi. Ci sono degli omini, degli automi. Fanno delle cose con gli arti e gli organi fonatori, fanno movimenti e suoni. In quel momento lei è l’occhio completamente estraneo che vede tutto questo obiettivamente, e questo è l’illecito assoluto, ovvero l’impossibile. E dunque, appena ne prende coscienza, la visione si dissolve.
Tiene il gomito nell’angolo del finestrino del treno. Sente sulla guancia la pelle rovinata del palmo della mano. Sente la punta del gomito vibrare con il treno. “Vado da Gabriele perché voglio vederlo”, si rigira nella mente questa frase. Le sembra fatta di parole senza contorni. Non afferrano le cose, come le ombre delle nuvole. Di notte scrive le sue lettere a Gabriele, scrive di come si sente, di cosa sente per lui. Al mattino rilegge le lettere prima di spedirle, e sono loro a dirle cosa prova. Quando se n’è accorta ha anche capito perché le lettere di Gabriele non le dicono nulla.
Sente sulla guancia la mano rovinata dal detersivo economico che usano nel ristorante dove lavora. Quando all’istituto pregava, le sue mani si univano ed erano lisce e morbide. Era come non sapere quale mano stesse toccando l’altra. “Ma di’ soltanto una parola e io sarò salvata”, solo questo ricorda. È sola nel vagone. Il colore del treno è della stessa pasta del sonno, fissa la campagna fuori, ed è come se in ogni istante si fosse appena voltata. Scava i piani del paesaggio, loro si allontanano. Il nome ‘campagna’ è esile, inconsistente, puro suono: stupido, strano nome. Parola. Oggi pensa che Gabriele è solo più abile a vivere nelle parole volanti, a saltare dall’ombra di una nuvola all’altra. Si fa notte e i campi spariscono prima che riesca ad aggrapparvisi.
L’esperimento la viene a trovare ogni giorno, da tanto tempo che non riesce nemmeno a ricordarsene. L’esperimento lo ha cominciato lei, crede. Ogni giorno lei lo ha provocato sperando in una determinata risposta, e ogni giorno lui ha restituito la risposta contraria, di giorno in giorno più chiara, più perentoria, più irrimediabile. L’esperimento non è più una sua volontà, è cresciuto fino a diventare enorme e contenerla: da tempo ha il sospetto che sia l’esperimento a provocare lei a provocarlo, lo fa per poterle dare ogni volta la risposta che lei non vuole e per non darle la risposta che lei spera di ottenere. L’esperimento si dispiega ormai istante per istante, senza che possa fermarlo. Oggi ha la certezza che è l’esperimento a sperimentare lei. Che è l’esperimento che ora le sta facendo cercare la campagna, per dimostrarle che la campagna non le dice nulla, che la sta portando da Gabriele, per renderle inequivocabile che Gabriele non è nessuno. Oggi è convinta che, una volta persa, la voce delle cose non può tornare; e che lei, una volta uscita, non può rientrare. Pensa che anche il treno è estraneo: anche se il treno e le cose corrono paralleli e non si toccano mai, pure essi appartengono allo stesso mondo.
La soluzione, pensa, è una parola semplice e pura, la più rara del mondo. Una parola della quale ognuno è dotato, ma che una volta perduta non si può diseppellire. Il treno si ferma. Sente salire un’acqua di alluminio nella bocca. Scende. Non c’è nessuno ad aspettarla. Esce dalla piccola stazione. Nella notte attraversa la città, palazzi ignoti. Pochi sconosciuti non la vedono e parlano di vite riuscite. Ma non ha più invidia, né vergogna. L’orizzonte buio oltre i palazzi si allarga al tempo dei suoi passi. Gli va incontro e lui diventa immenso. Ora la sabbia le appesantisce i piedi. Poi le piccole onde della riva le riempiono le scarpe. Cammina e non ha paura del gelo e del vestito che si gonfia. Pensa alle parole esatte del silenzio.