Interludio sulla compilazione del database di un call center in caso di morte

Il breve pezzo letto alla maratona di chiusura del PerepePè – che è poi una versione modificata di questo. Gli altri tre pezzi letti al PerepePè sono questo, questo e questo.

Il software che usavamo al call center per effettuare le chiamate girava su windows 98, e aveva la faccia, nel quarto del monitor in alto a sinistra. La faccia, che era fatta di quadrati molto grossi, aveva tre espressioni: in attesa, risposta, e numero non funzionante. La faccia in attesa era apatica e gialla; la faccia da risposta era verde, aveva la bocca aperta, sorridente, come chi stia parlando con un amico caro; generava una certa dissonanza cognitiva quando chi aveva risposto al telefono ti stava augurando la morte; la faccia del numero non funzionante era rossa e malinconica.
Dato che lavoravamo cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del 1996, ed era il 2007, nostro compito era anche aggiornare il database segnalando quali di loro non fossero più in vita. Gli esercizi, dico, le ditte, cioè spesso gli uomini-ditta, titolari di ex imprese casalinghe, vetrerie nella rimessa, assemblaggi di pc nello scantinato. E in effetti accadeva spesso che la faccia del software diventasse verde e sorridente, e rispondessero le mogli degli uomini-ditta: esperte nel rispondere al telefono: «No, non c’è Gaetano. Dov’è? È al campo santo», espressione che segnala la tendenza della metafisica locale ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona.

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In merito alla terapia

In merito alla terapia
Water, water everywhere

Per quanto il dato fosse già di pubblico dominio grazie all’abbondanza di letteratura sull’argomento, ammetto che senza nemmeno rendermene conto mi aspettavo l’unico oceano indiviso che fin da bambini siamo abituati a immaginare. Invece una volta entrati nell’atmosfera potemmo vedere i fondali più prossimi alla superficie, i continenti di quel mondo, solo più velati d’azzurro dei nostri: aree verdi scuro e marroni, o grigie, ricoperte dalla sottile lastra dell’acqua. Scendemmo ancora, e allora quello che fino a un istante prima era stato il contorno del pianeta divenne il nostro orizzonte.
Ero curioso. Ravioli no, e anche per questo non era contento. Come me non c’era mai stato, ma aveva sempre confessato che al solo pensarci gli venivano i brividi. Il trovarselo concretamente sotto di noi, così pacifico e rasserenante, non sembrava aver dissipato le sue sgradevoli suggestioni. Guardava fisso nell’oblò sotto i nostri piedi mentre dai riccioli biondi due rivoli di sudore gli colavano sul volto pallido e contratto. Tuttavia non erano tempi buoni, del resto oggi non è che siano migliorati, e ci si adattava a fare un po’ tutto. Raramente fare tutto è piacevole e Ravioli non era scemo né paranoico. Eravamo, soprattutto, solo l’ennesima missione, la prima per me e per lui, ma già occorrenza del fenomeno in crescita costante che la gente chiama la Nuova Sensibilità. Ricchi professionisti riempivano i loro giardini imperiali di vestigia, facevano ricerche di scientificità improbabile sull’origine dei loro cognomi, malpagavano volontari per il recupero dei reperti. Quello che si raccontava degli squali e delle loro facoltà ipnotiche non era rassicurante. Persino le loro dimensioni, che i più dicevano ridotte, meno che umane, ne facevano delle creature anomale. Nessuno ne aveva mai catturato né fotografato uno e chi ne parlava sembrava talmente sballato che i più suggerivano di non dar credito alla storia. Talmente sballato, pensai guardando Ravioli che fissava il nulla mentre guardava l’oblò, da provare con il suo stesso comportamento che qualcosa doveva aver necessariamente veduto. Ma questo non glielo dissi a Ravioli. Né scacciai il pensiero, perché nello spazio i compagni ti servono freddi e le leggende ti fanno sopravvivere.

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Kraftwerk Tapes

Per accertare ogni anno che molti di loro non fossero più in vita, li chiamavo ogni mattina cliccando sui numeri di un database estratto dall’elenco telefonico del ’96. Gli esercizi, le ditte, dico. Spesso – ex imprese casalinghe: uomini-ditta – rispondevano le vedove – vedove di uomini-ditta: esperienza nel rispondere al telefono – «no, non c’è Gaetano: è al campo santo», espressione tipicamente pesarese che segnala la tendenza ad attribuire primato al corpo nell’individuare la persona. Quando qualcuno rispondeva, sul monitor la faccia fatta di quadrati apriva la bocca come se stesse parlando, e sorrideva. Altre volte il computer componeva numeri scomparsi, numeri di cubi di cemento vivo gettati nei cerchi più esterni della città e della campagna, strisce di cerata appese a cancelli elettrici, cubotti privi di piastrelle, tirati su dove prima c’era un rigagnolo o un acquitrino – è una zona paludosa questa –: il segnale correva sulle colline, tra le falegnamerie a conduzione familiare, le serre, i camini e le galline, per trovare solamente i locali ormai deserti: contenitori abbandonati di vasche di dischetti da 3½, pezzi di mac classic o di ibm pre-Win98, vecchie stampanti a getto di inchiostro, basi orfane dei cordless. Allora il segnale mi tornava ansioso con un tu-tu-tu, e sul monitor la faccia fatta di quadrati aveva uno sguardo perso e malinconico. Ma c’erano anche i telefoni che attivavano altri telefoni: per il computer erano risposte, la faccia fatta di quadrati apriva la bocca felice, solo che al posto di una voce che diceva «pronto?» nella cuffia sentivo un altro telefono squillare diversamente dal primo: uno squillo allegro e vetero-elettronico: la traduzione che il primo telefono mi faceva della voce del secondo telefono: erano i telefoni che si attivavano da un ambiente all’altro cercando il loro padrone; immaginavo il loro rincorrersi in spazi vuoti e placidi, il raggio del sole che da una finestra quadrata illuminava scrivanie o telai o tecnigrafi o pialle bicombinate. “Attivo” segnavo in questi casi nel database. “Defunto” in tutti gli altri.

Nella condizione irrevocabile

Il fatto che si possa decidere di recarsi e vivere nel futuro non significa che chiunque possa tornare indietro nel tempo ogni volta che lo desidera, quindi la mia massima aspirazione – svegliarmi ogni giorno alle cinque del mattino – non è assolutamente favorita dall’esistenza dei viaggi nel tempo. I viaggi nel tempo sono istituzionalmente regolamentati, forzatamente collettivi – dato che sarebbe un delirio organizzarne di individuali, e quindi non si può scegliere a piacere il momento in cui si torna – e tecnicamente macchinosi: ci sono due convogli al giorno, uno alle dieci del mattino e uno alle diciotto, tre nei giorni festivi, durante i quali è previsto un convoglio serale alle ventidue. È la prima volta che vengo nel futuro, però ti chiamo spesso, quasi due volte al giorno, anche perché dal passato tu non puoi chiamarmi per una qualche ragione che un paio di individui – dei quali una eri tu – hanno tentato di spiegarmi senza ottenere risultati. Intanto noi mangiamo e dormiamo qui nel college dove io sto curando un abstract sul lavoro di un’artista italiana contemporanea -contemporanea qui -, Marzia Beltrami, le cui opere – almeno quelle disponibili qui al museo del college – sono delle sfere trasparenti che contengono omini vestiti da Santa Klaus, tronizzati su stelle argentee dall’aspetto marino o in paesaggi di tecnologia superata, feticci di macchine a energia manuale; qui abbiamo tre sfere di diverse grandezze, due maggiori e una minore. La cosa interessante è che la persona che dovrà giudicare il mio elaborato è la stessa cui, in uno studio di legno di ciliegio, chiedo di mostrarmi come se ne scriva uno e che di fatto redige sul momento una metà di quello che io le dovrò presentare.

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Ex villaggio olimpico state of mind

Scendendo dal treno a Torino eri sereno, andavi a vedere la foresteria dove una camera singola ti attendeva e ti avrebbe accolto per tre mesi invernali: consigliata, la foresteria, dai preti. Immaginavi il lungo corridoio, consegnato su un lato ai fedeli pannelli di legno di noce intarsiato, la sua navata attraversata dai meditabondi ospiti, l’altra parete ritmata dalle porte, una e un’altra e un’altra ancora e ancora fino alla tua porta, la tua camera con gli spessi mobili di legno, la scrivania, la libreria da colmare e colma un’ora dopo l’arrivo, l’inverno a Torino.
Scendi dal treno a Torino e sei a Torino Lingotto, e devi trovare la foresteria. Ti guardi intorno e per la prima volta realmente realizzi il significato del nome della zona dove ti hanno detto di recarti: Ex villaggio olimpico, dove per quattro giorni e fino a due minuti fa “villaggio” faceva caldo e comunità, e “olimpico” vicino a “villaggio” sapeva di prati e campi da calcio e da tennis, ed “ex” faceva riutilizzo sociale, mano salvifica e provvidenziale; ora vedi che “olimpico” sa di evento di tecno-mercato, “villaggio” sa di divisione dormitorio ed “ex” sa di residuo di un evento trascorso, spazzato dal vento. Così: sei al centro dell’imponente agglomerato, l’organo transitorio che la città si è costruita e ha poi abbandonato a se stesso. Altresì comprendi, improvviso e inquietante, il significato di “Palazzina 14” che ti hanno detto di cercare e che ora riconosci: palazzina, palazzina, tuo dio, come ti è accaduto di narcotizzare il sostantivo? Cerchi Palazzina 14 tra un mucchio di Palazzine che assomiglierebbe alle Cellette se le Cellette fossero l’ambientazione di Hokuto No Ken: ogni Palazzina è altissima, bianca e stretta, e reca subito sopra all’entrata una bandiera rossa che ne indica il numero, cioè il nome; alla base di ognuna i vetri sporchi su due lati mostrano un atrio dalle pareti azzurre contenente una scrivania di plastica arancione, una sedia in pvc; venti Palazzine vuote nel deserto, alle spalle delle quali s’impongono alla vista un enorme cerchio rosso, un indistinto monumento di metallo e ancora dietro la stazione di Torino Lingotto dalla quale sei sbucato ignaro come un topo. La numerazione segue una logica ignota simile al caso, e solo ripercorrendo in diverse combinazioni il già percorso giungi alla base di Palazzina 14: sulla sedia in pvc siede un uomo che tiene sulla scrivania di plastica arancione, tra le dita anellate, un quadernone a scacchi.

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One day one trip 8

19:29
Capo: -A che ora hai l’autobus?
Jago: -Alle 19 e 31.
Capo: -Sono le 19 e 28.
Jago: -Finisco la scheda e vado.
Capo: -Voglio che me la fai diversa. Mettimi come ti dico io… alloraaa… “confermare martedì”.
Jago: -…
Capo: -…
Jago: -Va bene così?
Capo: -Sì.
Jago: -Ok, allora proseguo, sennò perdo l’autobus.
Capo: -Ascolta io vendo la moto.
Jago: -M.
Capo: -Non vuoi comprare la mia moto?
Jago: -Non in questo momento… dunque, nominativo…
Capo: -Cos’è, non ti fidi?
Jago: -Certo che mi fido, ma non ho né i soldi né l’intenzione… indirizzo, zona…
Capo: -Guarda che l’ho fatta revisionare tutta. È a postissimo, funziona alla perfezione.
Jago: -Non ne dubito.
Capo: -Allora perché non la vuoi comprare?
Jago: -Perché non mi interessa comprarla.
Capo: -Hai finito la scheda?
Jago: -Provo.
Capo: -Ah, no aspetta: cambiami la formula dell’indirizzo, voglio metterla così.
Jago: -Come?
Capo: -Aspetta… Ma pensaci alla moto.
Jago: -Va bene, ma come lo metto l’indirizzo?
Capo: -Dai va bene lo stesso, muoviti, la finisco io, che sono le 19 e 33. Forse fai ancora in tempo a prendere l’autobus.

One day one trip 7

18:48
Capo: -Perché non gli interessa?
Jago: -Ha detto che sono sopravvissuti finora senza, e non hanno voglia di affrontare la spesa, ci penseranno l’anno prossimo.
Capo: -Con chi hai parlato?
Jago: -Con lui.
Capo: -Ah sì, eh?
Jago: -Sì, con lui.
Capo: -E perché lui stesso l’altra volta aveva detto che su queste cose decideva la moglie e invece adesso ti ha detto che non erano interessati?
Jago: -Magari ne hanno parlato, non lo so.
Capo: -Come non lo sai?
Jago: -Non sono nella sua testa, non posso saperlo.
Capo: -Ma ti sembra normale che uno tre mesi fa dice che decide la moglie e oggi lui si permette di dire che non sono interessati?
Jago: -…
Capo: -Ah non lo so: nel primo rapporto dici che decide la moglie, nel secondo dici che lui ha detto che non sono interessati. Fa’ un po’ te.
Jago: -Io scrivo quello che dice lui.
Capo: -Ma tu devi capire.
Jago: -Bene. Lo richiamo e gli chiedo come si permette di dirmi che non sono interessati quando l’altra volta mi ha detto che decideva la moglie?
Capo: -Ma cosa stai dicendo?
Jago: -Non ne ho idea.

One day one trip 6

18:12
Capo: -Cosa fai? Selezioni tutti i nominativi?
Jago: -Devo spostarli uno per uno?
Capo: -E certo! Sei matto?
Jago: -Forse, ma perché devo spostarli uno per uno?
Capo: -Perché se li selezioni tutti e ti si cancellano?
Jago: -Eh?
Capo: -Se li selezioni tutti e ti si cancellano?
Jago: -Cioè: se li seleziono tutti, premo il tasto destro, dico ‘cancella’, rispondo ‘sì’ al ‘sei sicuro?’ e poi svuoto il cestino? Mi sembra un’ipotesi improbabile.
Capo: -Perché?
Jago: -Perché dovrei farle io, tutte queste cose.
Capo: -Certo, tu sei l’unico che sa usare il computer, vero?
Jago: -…
Capo: -Non mi piace per niente questa tua presunzione.

One day one trip 5

17:48
Capo: -Perché questo nominativo risulta controllato e convalidato e invece non lo è?
Jago: -Non lo so.
Capo: -Come non lo sai?
Jago: -È stato controllato e convalidato l’anno scorso: non l’ho controllato né convalidato io.
Capo: -E allora? Non ti sembra il caso di controllare e convalidare i precedenti controlli?
Jago: -Credevo che il controllo e la convalida servissero proprio a evitare che altri dovessero fare lo stesso lavoro in un secondo momento.
Capo: -Ma certo che uno non lo deve rifare, altrimenti non finiremmo mai, nooo? Ma come ragioooni?
Jago: -È quello che dico io: se è convalidato vuol dire che è stato controllato ed è a post…
Capo: -Ma questo non è a pooosto.
Jago: -Ma dato che tutti risultano convalidati, per sapere quali non sono validi devo ricontrollarli tutti.
Capo: -Ma cosa vuoi faaare? Vuoi controllare un’altra volta tutti quelli che son già stati controllati? Insomma, non è possibileee, io non so più cosa fare con teee. Dovrai controllare solo quelli che non sono validi, no? Cacchio, sveglia!
Jago: -Ehm…