Nessuno è venuto a cambiare la lampadina del pianerottolo. Forse l’amministratore di condominio si è dimenticato, forse è ai container, o più probabilmente è in ferie: è appena finita la stagione della pioggia, è estate, e lui ha sicuramente un cazzo di cortile da cui godersi il sole. Forse il tecnico che è stato chiamato non se la sente di venire, o forse è in vigore un’ordinanza che vieta di andare per palazzi a cambiare lampadine perché cambiare lampadine non è una priorità. Non ne ho idea, ormai ho perso la cognizione dello stroboscopico attivarsi e disattivarsi delle ordinanze nelle loro varie combinazioni a seconda del tipo di epidemia, della localizzazione e dell’estensione del contagio, della previsione di impatto sul sistema sanitario: esci, no, sta’ a casa, no, va’ a fare la spesa, falla solo in certi giorni, falla negli altri giorni, falla se hai questo cognome, si può uscire solo vicino a casa, no, si può uscire solo per seguire i percorsi convenzionati che escono dal centro abitato e raggiungere le aree che consentono il distanziamento, no, non si può uscire. Un giorno ti lasciano passare per un motivo e una settimana dopo per lo stesso motivo ti fermano, è impossibile sapere sempre tutto e comunque fanno quello che vogliono.
Categoria: Psicosi diverse
Il tao di Nina e Francesco
In occasione di “Urbino e le città del libro”, Il tao di Nina e Francesco è stato pubblicato nella “Piccola libreria dei libri che si trovano solo a Urbino” in quattro volumetti diversi a cura di quattro illustratori: Elia Alaimo, Chiara Bettega, Marta Fioravanti, Alessandro Baronciani.
Fa caldissimo. Sto pedalando verso l’ultimo tratto di spiaggia; chiudo gli occhi, li riapro: vedo in bianco e nero per un istante. Arrivo in fondo alla strada, scendo dalla bici, scendo la scaletta: punto il luogo più lontano, accanto agli scogli, dove il colle e il mare si accostano e il mare è un acquario trasparente di sassi levigati. Le ciabatte affondano nella sabbia, a ogni passo di più. Oltrepasso una coppia di adolescenti che si baciano, una coppia di adulti che si tengono per mano, una coppia di anziani sulle sdraio, che si lasciano vincere dal sole, con gli occhi chiusi e le teste all’indietro. Ancora venti passi nella sabbia e mi fermo, apro lo zaino, ne tolgo l’asciugamano, lo stendo, mi levo la maglietta, mi levo le ciabatte; lascio cadere la schiena sull’asciugamano. Nel giro di una trentina di secondi il sole inizia ad assimilarmi. Lo lascerò fare per un po’, poi andrò in acqua. Per ora ascolto il ritmo dell’onda piccola sulla spiaggia; immagino le disintegrazioni di conchiglie: passarci sopra con il piede nudo, pezzi di mondi tra le dita; il minuscolo gelo dell’acqua a due dimensioni della riva; le miniature nere e rapide dei granchi di scoglio; la sabbia sotto il mare: scura, rigata, compatta. Tra poco. Ora osservo le orbite delle creature poligonali che abitano il mondo dei miei occhi chiusi: viaggiano, talvolta collidono, allora si sovrappongono e si incastrano.
Till death do us party
Till death do us party è stato pubblicato su Argo
Cecilia aveva messo sul piatto il vinile di True Blue, aveva acceso il giradischi, aveva appoggiato la puntina sul bordo del disco ed era andata a sedersi al centro del divano, distendendosi sullo schienale e lasciando che le braccia si adagiassero ai lati occupando quasi tutto lo spazio, e ora fissava Ferruccio con occhi duri, dalle palpebre immobili. Ferruccio la guardava, poi volgeva la testa a destra e a sinistra, gemeva, si grattava il capo e poi passava le mani sui pantaloni all’altezza delle cosce, e di nuovo la guardava con gli occhi lucidi, implorando una spiegazione.
– Non vali niente, – disse lei, – sei un incapace totale senza cervello e pure brutto, una merda di scimpanzé, un fallimento senza speranza.
Batté una mano sul cuscino del divano.
– Io e te abbiamo chiuso. Mi fai schifo. La tua faccia mi fa schifo, il tuo corpo mi fa schifo.
Ferruccio abbassò il capo e mandò un altro gemito. Tornò in cucina, a sorvegliare la preparazione della cena. L’orologio segnava le 20.31: gli ospiti sarebbero arrivati a momenti.
Lupi del bosco orientale – L’outro
Il pezzo declamato in chiusura al concerto-reading con i Lupi del bosco orientale.
Stella Rossa, il valoroso compagno d’acciaio
Non sapevamo cosa fossero i Disinfestatori. Se fossero automi, o forme di vita meccanica, o droidi pilotati a distanza, o pilotati dall’interno, da uomini, o da esseri che somigliano a uomini, o da esseri che non somigliano a uomini, se venissero da un altro paese, da un altro pianeta, o se non venissero né da un altro paese né da un altro pianeta. Non sapevamo nulla. Quelli che riuscivamo a distruggere esplodevano, quelli che riuscivamo a catturare si facevano esplodere, di essi non rimanevano che frammenti di una lega metallica nera composta di tungsteno, molibdeno e ferro.
Quando il professor Skoro mi scelse per pilotare il soldato d’acciaio Stella Rossa e il mio addestramento cominciò, erano trascorsi tre anni dalla morte del Maresciallo Tito e due anni dal pomeriggio di febbraio durante il quale i Disinfestatori erano scesi dal cielo sulle città dell’Europa e avevano aperto le bocche di fuoco dei loro lanciafiamme a petrolio; il pomeriggio di febbraio in cui avevo visto Spalato trasfigurarsi in un panico di creature incendiate, mentre, contro le nubi striate di viola, si fondeva e colava la gigantografia del Maresciallo.
Lupi del bosco orientale – L’intro
Il pezzo letto in apertura al concerto-reading con i Lupi del bosco orientale.
Quando scoprimmo la Terra – così chiamavano quel pianeta i suoi abitanti – la sua civiltà era crollata da un paio di secoli, e il suo popolo quasi estinto. I sopravvissuti erano per lo più ridotti allo stato selvatico. Su una montagna dell’emisfero australe conoscemmo un uomo, ci disse di essere un sacerdote e che riteneva sua missione conservare la memoria di ciò che il popolo della Terra era stato, e di come e perché fosse giunto all’autodistruzione.
Ci mostrò la sua biblioteca: milioni di file di testo.
Gli domandammo cosa contenessero. Ci rispose che erano metafore.
Voi sapete cos’è una metafora? ci domandò.
Lo sapevamo, e volevamo sapere perché conservasse solo metafore: non ci sono libri di scienza, qui? domandammo, storie vere? Manuali?
No, rispose, quelli non ci sono mai mancati. A dire il vero nemmeno queste, aggiunse indicando le cartelle sulla parete-schermo, solo che a un certo punto nessuno è stato più in grado di leggerle.
Gli domandammo se una qualche epidemia cognitiva avesse colpito il suo popolo rendendolo incapace di esercitare la lettura.
Qualcosa del genere, rispose. È successo che abbiamo cominciato a non capire più, cosa fosse una metafora; romanzi di fantascienza, trattati di teologia, poemi: tutto ciò che non poteva essere identificato con uno stato di cose materiale, visibile e documentabile là fuori, venne declassato a inutilità e danno. Avevamo una storia bellissima, pensate, di un uomo che percorreva l’inferno, il purgatorio e il paradiso, possedeva un valore analogico notevole; ebbene cercarono invano sulla Terra l’inferno, il purgatorio e il paradiso, senza trovarli, e invece che comprendere meglio quell’opera, non la compresero più, e divennero come bruti. E così l’Inferno lo creò questo popolo che riduceva il reale al controllo del territorio.
E dunque, domandammo, cosa accadde allora?
L’Acheronte del nonno
Su Scrittori Precari, L’Acheronte del nonno, il racconto che ho letto a Torino una sega:
[…] È in quell’istante che la porta della sala si piega verso l’interno con un gemito. Ci voltiamo tutti, e non capiamo finché non abbassiamo lo sguardo e vediamo il testone del nonno, e poi il nonno intero che striscia dentro la sala contorcendo il tronco. […]
[Questo invece è il racconto che non ho letto a Torino una sega]
Un tipo di serata
[Per Torino una sega ho scritto due racconti. Questo è quello che non ho letto.]
Anna si è fermata, si è staccata. Dario la sente respirare nervosa; apre gli occhi: vede il tettuccio dell’auto di Anna; piega la testa in avanti e vede il viso di Anna, immobile, al di là del suo pene: gli sembra che Anna stia fissando lui e non il suo pene; gli sembra che abbia in faccia il colore della luna, ma forse è la luce della luna.
Dario fa: – Che c’è?
Anna fa: – C’è uno.
– Eh?
– C’è uno, c’era uno.
– Dove?
– Fuori, affacciato al finestrino, ci guardava.
– Eh?
– C’era uno che ci stava guardando.
– Uno chi?
Dario guarda l’erezione svaporare mentre cerca di capire cosa ci si aspetta da lui ora.
– Uno, – fa Anna – uno, non so chi. Uno: calvo, gonfio, brutto, con la lingua di fuori, ci guardava: uno.
– Tirati su, – fa Dario.
Nella condizione irrevocabile (2.0)
In questo momento mi trovo a due anni da te. È la prima volta che vengo nel futuro a fare la stagione. Fare avanti e indietro ogni giorno mi costerebbe troppo, allora rimango nel futuro anche per due o tre settimane di fila; mangio e dormo qui, nel negozio di articoli per il mare, e ti chiamo una volta durante la pausa pranzo e una volta alla sera. Qui ho incontrato tante persone che conoscevo; poi ho scoperto che alcuni che all’inizio pensavo fossero qui per fare la stagione nel futuro sono invece proprio quelli del futuro, e dopo un po’ ho smesso di chiedermi se sto parlando con il mio conoscente del passato o con quello del futuro.
Governa ogni cosa
Barbelo, il cielo di Cherania, è alta e gonfia di nubi, un drappo color grafite trapuntato d’indaco attraverso il quale posso vedere i bagliori delle scariche che si sfogano nel pleroma. Ma da questa parte della cortina il fulmine non si manifesta, e io non avevo contemplato questa eventualità mentre la frenesia serrava il mio corpo nella navicella, mentre poneva nelle mie dita la combinazione corrispondente alla rotta per Cherania. E ora la mia ignoranza delle cose del fulmine e della natura del pleroma mi fa vergognare.
La Foglia
Questo racconto apparve per la prima volta sul Resto della Pesaresità, poi fu rielaborato per WebSite Horror, un progetto di Marco Candida, e infine fu pubblicato su Orbite Vuote, l’antologia horror di Intermezzi Editore.
La foto qui sotto è di Valentina Mattei.
Accadde nel pomeriggio del 14 aprile, venticinque anni fa. Eravamo nella sala giochi della paninoteca La Boa, sul lungomare di Pesaro. Ale stava giocando a Ghosts ’n Goblins. Io ero accanto a lui.
Mi disse:
– Oh! Lo sai che giorno è oggi?
– Che giorno è oggi? – feci io.
– Non ti ricordi cos’è successo l’anno scorso?
– No.
– Dai: il militare che hanno trovato morto sulla riva del Foglia.
– Non era un militare, era un drogato.
– Era un militare, e lo hanno trovato morto, e senza i piedi.
– Seee, senza i piedi…
– Giuro, – Ale staccò le mani dal videogioco, alzò la sinistra, pose la destra sul petto, riprese i comandi, – senza i piedi.
– Ma non dire cagate, – dissi, – era un drogato che è morto per la droga.