Aprile

-Sai- ha detto il Marchese col suo tono affabile, -io non sono del tutto convinto che l’ordinanza miri a penalizzare i pakistani, anche se effettivamente c’è un certo risentimento da parte di molti nei loro confronti.
Mi sono versato un altro bicchiere di pignoletto fermo, gli americani ai tavoli attorno facevano un casino del diavolo.
-Dici, Marchese?
-Bè, credo che anche i pub avranno delle perdite consistenti. Al Mutenye pare che abbiano fatto già delle multe, e i ragazzi si trovano nella condizione di dover fare gli sbirri sulla porta e fermare tutti quelli che escono con i bicchieri in mano. Poverini, sai che stress.
-Dici, Marchese?
-Hai visto il manifesto Cin cin del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione?
-Sì, l’ho visto, ma mi pare una cosa un poco fighetta, sarà la grafica. Non so, sono perplesso e filopakistano. Fuorisede, fuoristato, stessa merda. No? Poi quando farò i soldi andrò a farmi i frizzantini vestito con la grafica del manifesto Cin cin.
Abbiamo vuotato i bicchieri e siamo usciti sotto la pioggia. Quest’anno aprile è piovoso anche se tu sei qui. Forse ormai i pakistani sono diventati il simbolo di Bologna, per me, a forza di questo mio vivere in tesi, uscire alle undici e vagare per i diavoli miei da un pakistano all’altro, da una moretti all’altra, con la testa sempre troppo piena e il quaderno che mi hai regalato sempre troppo vuoto. È difficile prendere posizione, magari non lo farò più: scriverò dialoghi in cui io non compaio mai.

Io non so se voglio restare qui. Uscito dal corso, avevo la testa che mi scoppiava come i bidoni del rusco, e c’erano pezzi di robe anche fuori dalla mia testa come intorno ai bidoni del rusco in Piazza Santo Stefano. Sono entrato in casa che erano le otto e mezza. Ha squillato il cellulare, era Begotti, quello a cui pago l’affitto.
-Pronto.
-Senta io, a me, mi han detto delle cose, dei casini, a me queste cose non vanno bene micca.
-Eh?
Mi tolgo la giacca armeggiando col cellulare.
-Mi scusi, non capisco- gli ho detto, mi sono passato una mano sulla fronte, ho chiuso gli occhi.
-Senti io con te non ho mai avuto problemi, non ti ho mai chiamato per lamentarmi.
-Scusi, continuo a non capire: casini?
-Delle persone, ascolta, delle persone sono venute a lamentare con me: mi han detto che fate il casino la notte, e poi mi hanno detto anche dei traffici di mobili.
-Eh?- ho buttato il sedere sul letto, -cosa? Guardi, i mobili sono tutti qui, può venire a controllare.
-No, dico, che hanno detto, che i mobili sono stati spostati di notte.
-Eh?
-Insomma, ti sto parlando no, allora ascoltami insomma: qualcuno ha, si è messo a, spostare dei mobili di notte, ecco: la notte spostate i mobili e fate casino.
-Signor Begotti, io non so di cosa stia parlando.
-Senti io non voglio più aver lamentele dai condomini.
-Scusi, si può sapere chi si è lamentato?
Begotti ha cambiato voce, come se all’improvviso sorridesse:
-Eh, come sai, no, come si dice, si dice si dice chi è il peccato ma non il peccatore.
-Cioè lei mi sta accusando di cose che non sono mai successe raccontate da gente che non si sa chi è.
-Ascoltami, che sono più vecchio di te e ne so di più: la gente non si lamenta per, non si lamenta se non è successo niente, si lamenta per qualcosa.
-Sì, ma chi? Io voglio sapere chi si è lamentato di cose che non esistono. Voglio sapere perché non è venuto da noi a rinfacciarci cose che non esistono e invece è venuto da lei.
-Insomma,- ha gridato Begotti, -voi non potete fare il casino la notte, lo capisci o no.
-Io capisco che sono stanco morto, che la notte quando sono a casa lavoro al computer o mi guardo i dvd in cuffia, e puntualmente mi addormento, capisco che i mobili non si sono mai spostati, che se cade uno spillo mi sveglio e non mi sono svegliato. Capisco che qualcuno ha voglia di discorrere perché non ha niente da fare, e se casca una forchetta in cucina alle due di notte viene fuori che abbiamo fatto una festa fino alle sei, capisco che, e mi vergogno a dirlo tanto è banale, capisco che ancora c’è gente che decide che la forchetta è casino perché c’ho un orecchino nel naso e non vado in giro in giacca e cravatta.
-A me non hanno detto dell’orecchino, mi han detto del casini, dei casini che fate a notte. Dillo anche lì ai tuoi amici, insomma quelli che vivono lì con te. Che così non mi vanno bene micca, li ho visti come sono, cioè io non li conosco, però non voglio casini.
-Gli dirò che qualcuno che non si sa chi è si è lamentato di cose che non ci sono.
-Ecco diglielo.
C’è stata una pausa. Poi Begotti ha detto:
-Ti sento alterato.
-Sente bene.
-Non sei mai stato alterato con me.
-Ci pensi.
-Chiudiamola qui. Senti il tuo amico allora il contratto lo vuole fare, quando scade il tuo, o no? Io ancora non l’ho sentito micca? Neanche lo conosco io a.
-Scusi, prima il mio amico faceva casino, adesso vuole affittargli la casa.
-Lascia perdere il discorso di prima, il discorso di prima era, era di prima, adesso è il discorso di adesso: vuol fare il contratto o no?
-Che ne so io? Lo chieda a lui.
-Digli di chiamarmi.
-Arrivederci.
-Arrivederci.
Mi sono buttato sul letto e non riuscivo più ad alzarmi. Ho guardato l’orologio: erano le nove e sei, ho preso i grumi di forza rimasti e sono uscito, ho corso fino a Via delle Moline ma il paki stava chiudendo. Sono andato fino al Mutenye, a farmi una Augustiner.

-È assolutamente un’ordinanza razziale,- ha detto Cocìss.
-Dici?
-Certo, e poi lo hai detto tu. È chiaro che è così. I pub hanno solo da guadagnarci e Bologna vuole far fuori i paki. È oltremodo chiaro.
-Dici?
-Ma è ovvio. Lo hai detto tu.
Siamo andati a pagare i caffè. Accanto alla cassa c’era la petizione del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione. Cocìss ha firmato. Ce ne siamo andati sotto la pioggia. Non voleva smettere. Erano le sette e mezza. Sono passato in Piazza Verdi ed era il solito schifo. Sulla strada di casa, in Via delle Moline, sono entrato dal paki.
-Ciao bello, come va- mi ha detto il paki stringendomi la mano e poi portandosela al cuore.
-Bene tu?
-Bene, bene!
Ho preso due moretti, accanto alla cassa c’era la petizione del Piccolo Gruppo in Moltiplicazione. Sono uscito, ho mandato un sms a Cocìss:
«anche i paki firmano la petizione, e la tengono sul banco».
Sono andato a casa, ho cenato, mentre guardavo ottemmèzzo è arrivata la risposta di Cocìss:
«i baristi fighetti intortano i paki, gli fanno fare propaganda, poi li fanno chiudere».

Ieri sono andato alle poste per pagare la bolletta. Quando sono rientrato, al terzo piano, sul pianerottolo, c’era Rusconi, in maglietta e pantaloncini. Era uscito sul pianerottolo così com’era, col freddo che faceva, con i calzini dentro le ciabatte, stava con le mani aggrappate alla ringhiera e guardava sotto. Mi ha visto salire le scale e ha detto:
-Eri tu?
-Ero io cosa?
-Eri tu che hai chiuso il portone, adesso?
-Sì, sono stato io, sono entrato.
-No, perché ho sentito che suonavano nella casa di qua.
-Sì, c’era una ragazza di sotto.
-Credevo che era la pubblicità, quelli che vengono a metterti la pubblicità- mi ha detto con lo sguardo sbarrato, -lo senti quando ti suonano e hanno l’accento degli importati.
-L’accento degli importati?
-Sì, importati, come quelli che vendono da bere, che adesso gli è arrivata una bella batosta, era ora, che li ho visti adesso che chiudono, ah ma gli sta ben.
-Ah, dice gli extracomunitari.
-Non se ne può più.
-Non se ne può più di cosa?
-Degli importati.
-Ah, già… Io salgo. Arrivederci Rusconi.
-Arrivederla.
Ho ripreso a salire, lui è restato un po’ a guardare nella tromba delle scale, e intanto ha parlato con la moglie che era in casa. Mi sono fermato e ho ascoltato:
-No, non era un importato, ah, ma col bastone nodoso io.
Poi ho sentito la porta che si chiudeva.
Poi sono entrato in casa.
Poi mi sono buttato sul letto e ho guardato la pioggia fuori.

Oggi mi sono svegliato e c’era il sole. Le previsioni dicono che domani tornerà la pioggia. Non ne avevo la benché minima voglia ma era necessario farlo: oggi o mai più. Ho preso lo spazzolino e l’ammoniaca. Sono andato sul terrazzo. Da sotto al vecchio mobile che teniamo là ho tirato fuori le due paia di scarpe con le quali ho pestato la merda. La mano sinistra dentro la scarpa, nella destra lo spazzolino intinto nell’ammoniaca. Ho cominciato a strofinare.

Golden Hours (sul culto degli dèi)

Ricordi cosa successe a quei due che non siamo più noi, quest’estate? Estate? La loro seconda estate insieme, no? Senza inverni: non hanno mai vissuto un inverno. La tristezza arrivò la notte prima, mentre dormivano. Quel giorno, quando lui rientrò dopo averla accompagnata all’autobus, la tristezza stava ancora lì. Pensava:
la tristezza viene prima che tu te ne vada, perché nasce dal fatto che te ne andrai, eterno ritorno di quando te ne sei andata per tanto, tanto.
In via Rizzoli, dall’altra parte della strada rispetto alla fermata dell’autobus sul quale lei saliva per farsi riportare a casa, c’era spesso una ragazza che stava rannicchiata ai piedi di un pilastro del portico. Pregava con un animale di pezza tra le mani, stringeva le mani in un solo pugno attorno al piccolo animale di pezza, vi appoggiava la fronte pallida, e restava così. Teneva sempre davanti a sé un cappello minuscolo, sempre vuoto, e un rettangolo di cartone con su scritto “ho fame vi prego aiutatemi”. Avrà avuto sì e no ventiquattr’anni. Qualche giorno prima della notte in cui arrivò la tristezza lui aveva lasciato cinquanta centesimi nel cappello, la ragazza aveva alzato il viso dalla pezza e aveva detto “grazie”, sorridendo. Quel giorno, quel giorno di tristezza, dopo il gelato, quando lei salì sull’autobus, lui attraversò la strada e vide la ragazza che si disperava la fronte sulla sua bestia di pezza sporca. Cambiò strada. Quando tornò a casa c’era la tristezza, e alla televisione c’erano le olimpiadi. Pensava:
Forse ho smesso di amarti, forse è stato quando tu hai ghignato e detto: tu lo farai, perché sei innamorato di me.
Mise la zucchina a bollire, con un po’ d’aglio. Non ne capiva nulla, ma sai com’era, ogni volta ne inventava una nuova. Era senza metodo, come me. Fece stringere la passata, bella scura e grumosa. Scolò i sedanini, distillò un po’ d’olio. Niente male. Uscì un istante sul terrazzo: si stava proprio bene fuori. Non volle perdere tempo. Rientrò in cucina. Mise tutto dentro una vaschetta di stagnola con della carta sopra, e poi mise la vaschetta in una busta, assieme ad una forchetta di plastica e due pezze di scottex. Prese la busta, le chiavi, uscì. Pensava:
Forse è stato quando lo scottex era nella vasca a inzupparsi e tu eri alla finestra del bagno, assorta nel lago grigio delle nubi, attendendo un temporale estivo che poi ti ha delusa, e non ti eri nemmeno chinata per salvarlo, lo avevi visto ma non avevi fatto nulla, lo hai lasciato annegare.
Vide il riquadro in fondo a via Oberdan, un riquadro completamente arancione: la tinta dei muri, le persiane e i vetri, i cornicioni, i tetti, le grondaie, le antenne e il cielo, ogni cosa era di una diversa sfumatura di arancione. Si affrettò verso il riquadro che si ingrandiva finché sbucò nell’arancione accecante di via Rizzoli. Allora prese a battere il portico, tentando di focalizzare lo sguardo ai piedi di ogni pilastro, per trovare la dea di via Rizzoli, per servirle la sua cena.

Rapporti, no?

Begotti mi chiama alle nove di sera e mi dice:
– Senti, per quella cosa che dicevi tu, si può fare, si può fare. Però bisogna che stiamo attenti. E poi bisogna che tu venga da me, così facciamo un po’ di conti.
– Quando? Domani va bene?
– Domani va bene, vieni alle tre e mezzo.
– Ok, alle tre e mezzo sono da lei.

Raggiungo Rah e andiamo all’Infedele. Prendiamo un nebbiolo.
– Te l’ho postato, te l’ho detto, – fa lui, – hai alzato il tiro, era ora. Lì per lì, quando ho visto New-Clear Wordz ho detto: ecco un bel progetto di Jago. Poi però non mi piaceva: Lan Tze non mi è piaciuto per un cazzo.
– Lan Tze era un sogno, un clima, c’è una contraddizione in fondo a Obiettivi e Sensibili: valorizzzare la scrittura in sé e per sé, come esercizio quotidiano senza pretese, e però cercare le nuove parole, per andare più in fondo: sto sempre a orbitare attorno al nulla come una cazzo di teologia negativa, e poi ’sta cazzo di tesi mi sta uccidendo i sentimenti, mi si è richiuso il terzo occhio, non sento un cazzo, e poi non ho nemmeno il tempo per stenderli, i racconti, e farli fermentare. E poi c’è anche… hai visto CapelliRossi?
– L’ho visto, è molto bello. Però vedi: è bello perché è puro, è genuino, è autentico, ed è anche scritto bene, però manca quella formalizzazione di mestiere, quella forma-racconto che fa lo scrittore consumato.
– Merda Rah, lo capisci che è quello che vorrei riconquistare e non è possibile? Non è più possibile perché la forma ti frega, e la tua spontaneità va a puttane per sempre. Mmuum quella roba ce l’ha nel sangue. Dovrei avere il tempo di ritrovare me stesso, la filosofia mi sta rendendo troppo analitico, troppo scientifico.
– Comunque va bene così – fa Rah, – quando c’è una contraddizione va sempre bene.

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St. Elmo’s Fire (ecco i miei denti)

Il primo non può farcela, sai? Lo vedo, trasuda rabbia, è nervoso. Anche il suo corpo tradisce qualcosa della devianza repressa. La provincia fa male, sai? Ci sono dei maschietti che non riescono a mollare né la diversità né il paesotto, allora sviluppano questo strato adiposo compatto ed omogeneo, parlano la forma del nervosismo, perdono un po’ di ironia. Ripenso il suo linguaggio mentre sono in treno per venire da te che intanto sei altrove. I suoi pregiudizi non sono creativi, non sono prese di posizione ma sentieri battuti da tanti nei boschi turistici per i bianchi. Non ha bersagli originali: lui crede davvero, è sul serio, capisci? Lui vive per metà nel suo mondo, per l’altra metà nella metà peggiore del resto del mondo. Resiste a fatica al grande gorgo dell’epiteto, capisci che quando non ci cade si sta sforzando. Allora hai paura, vuoi afferrarlo, ma non per lui, ché tanto non smette di sotto-pensare ciò che sotto-pensa, no, lo fai per l’estetica, e ti fai ipocrita, ti fai perbenista, quasi pensi che se non lo dice non lo è, dici: no, non scivolare, non scivolarmi qui. Lui non vede, ed è per questo che non può, vede i fantasmi, non è lucido; non che sia malvagio, ma non è lucido, è preda delle ombre, vive nel sogno: non ha attenzione. Mi domando quanto di lui è in me, quanto della mia purezza sia terrore, quanto del mio odio politico sia la rabbia tra-sudata: quanto io possa capirlo in virtù della nostra sottile, parziale identità. Lui non sente le nuove-chiare parole. Gli manca quel minimo di razionalità per vedere che ogni individuo è vittima, e solo la macchina è colpevole. Questo è un grado di razionalità necessaria, credo, un ingrediente fondamentale della condizione del praticante: non sentirsi mai migliore dei propri personaggi. Io lo chiamo pietas, ma non so se il nome è giusto.

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