Che si dia per scontato

Leiji Matsumoto, Arcadia

Non sembra più strano nulla, neppure il fatto che oramai chiunque assuma dosi poderose di ansiolitici, che l’insonnia sia per gli italiani il fattore numero uno di destabilizzazione nervosa, che le coppie non durino abbastanza da diventare famiglie – tanto che ormai nelle scuole italiane ci sono più alunni di origine straniera (e vivaiddio che ci sono almeno loro, sennò gli insegnanti se ne starebbero a casa) che di italiani – che in genere si registri un aumento esponenziale di reattività emotiva nella sfera affettiva, mentre la resilienza nella sfera lavorativa è oramai da considerarsi patologica.

[…]

Le radici della cultura italiana affondano nell’esclusione, nella pratica di consorteria, nell’infamia. La situazione attuale non si può considerare una cacciata implicita? Noi si resta qui, ma qualcuno ce l’ha chiesto forse? Arrivano segni tangibili per cui la nostra presenza di intellettuali che potrebbero contribuire in maniera efficace a svecchiare e migliorare questo Paese è effettivamente voluta da chi questo Paese lo governa? Per quanto mi riguarda il fatto che la presenza di molte menti eccellenti non venga, non dico notata, ma neppure a volte remunerata, e che si dia per scontato che un’intera generazione accetti di rimanere appesa al cappio di contratti capestro annichilendo il suo potenziale intellettuale, equivale ad una condanna in contumacia. Perché abbracciare con uno sguardo amoroso un organismo anaffettivo come quello che è diventato questo Paese? Quale investimento emotivo è quello che si chiede a chi può decidere di andarsene: rimanere in cambio di che?

Claudia Boscolo

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NOI

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Facciamo passare qualche giorno, aspettiamo che tutti si persuadano che l’emergenza è passata, che si è trattato di un paio di bravate e niente più. Poi, un giorno che la scuola è aperta anche al pomeriggio, appena l’ultima campanella suona e gli studenti escono, raggiungiamo la palestra interna, squarciamo con un coltello da cucina il rivestimento in similpelle del materasso che attutisce le cadute del salto in alto, estraiamo la gommapiuma compressa e la sparpagliamo in giro. Prima di darle fuoco, Volo scrive sul muro con un pennarello nero la data e l’ora, perché non ci siano equivoci, e poi il nostro messaggio:

BEATO CHI CI CREDE, NOI NO NON CI CREDIAMO

E più sotto, a mo’ di firma: NOI.

L’idea di usare un verso della sigla di Di nuovo tante scuse è stata del compagno Raggio. È la prosecuzione della logica dell’alfamuto, ovvero una rivisitazione in chiave politica della stupidità italiana, in questo caso le parole di una canzonetta. Ci piace pensare che chi leggerà non potrà non sentirsi dentro le voci di Raimondo Vianello e Sandra Mondaini. È una beffa, una cosa indecente. NOI, invece, è il nome della nostra microcellula virale. Coordinarci durante queste prime azioni di lotta – uno sulla soglia della porta a fare il palo comunicando tramite l’alfamuto un eventuale pericolo, la risposta silenziosa del compagno – ci ha insegnato che noi è la parola in cui coesistono la distruzione del soggetto individuale e l’orgoglio di essere compagni: per me che dico sempre io, che vivo chiuso nel raglio asinino, pensare noi è sbalorditivo. NOI è anche l’acronimo di Nucleo Osceno Italiano: nucleo identifica la solidità; osceno è l’unico tempo che abbia senso vivere; italiano è ciò che ci indigna e ciò in cui siamo immersi.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Fare argine

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

La tua immaginazione produce disfacimento, aggiunge.
Non è vero.
Sì che è vero. Perché sei come me: cerchi la lotta.
Stiamo accanto e non ci guardiamo; lui nel nido, io vicino al cespuglio.
Sei attratto dalla distruzione, continua.
Non è vero, ripeto.
Allora perché non hai mai immaginato che dal tuo filo spinato potesse generarsi un’infezione buona?
L’infezione non può essere buona, dico subito.
Mentre se ne sta zitto, le piume scagliose che nel respiro gli si sollevano sul petto e si riabbassano, so che non ho ragione ma devo fare argine, prendere tempo.
Nimbo, mi dice passando a una tonalità più alta, ed è la prima volta che qualcuno mi chiama così. Tu sei venuto qui a cercare il sesso e la lotta, continua. Per te sesso e lotta sono l’unica infezione possibile, l’unica direzione nella quale muoversi.

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Enfasi

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

Dopo la quinta ora facciamo la strada insieme. Scarmiglia sta zitto, Bocca discute, io rispondo. Parliamo ancora dei comunicati, della loro lingua. Bocca ne è conquistato, gli piace l’enfasi, le loro frasi precise e feroci.
Lo ascolto, ci penso, mi rendo conto che se anche ne avverto la fascinazione nella loro lingua c’è qualcosa che qualcosa che mi mette in imbarazzo, una pena per il dogmatismo imparaticcio, per l’enfasi puerile. Eppure io per primo sono enfatico. Non posso non esserlo perché so, come lo sanno le Br, che l’enfasi è l’unico modo per accedere alla visione, alla profezia della storia. Certo, si diventa ridicoli, ma non ci sono alternative: tra l’ironia e il ridicolo scelgo il ridicolo.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Contro l’ironia

Giorgio Vasta, Il tempo materiale, Minimum Fax

In questa polaroid siamo tutti ironici. E a me l’ironia fa male. Anzi, la odio. Non solo io, anche Scarmiglia e Bocca. Perché ce n’è sempre di più, troppa, la nuova ironia italiana che brilla su tutti i musi, in tutte le frasi, che ogni giorno lotta contro l’ideologia, le divora la testa, e in pochi anni dell’ideologia non resterà più niente, l’ironia sarà la nostra unica risorsa e la nostra sconfitta, la nostra camicia di forza, e staremo tutti nella stessa accordatura ironico-cinica, nel disincanto, prevedendo perfettamente le modalità di innesco della battuta, la tempistica migliore, lo smorzamento improvviso che lascia declinare l’allusione, sempre partecipi e assenti, acutissimi e corrotti: rassegnati.

Giorgio Vasta, Il tempo materiale

Lasciarsi fare

Simone Weil, L'ombra e la grazia, BompianiNon si può far nulla, assolutamente nulla, per coloro il cui Io è morto. Ma non si sa mai, in un essere umano determinato, se l’Io è morto o solo inanimato. Se non è morto, l’amore può rianimarlo, come se lo pungesse, ma solo l’amore completamente puro, senza la minima traccia di condiscendenza, perché la minima sfumatura di disprezzo precipita verso la morte.
Quando l’Io è ferito dall’esterno, per prima cosa si rivolta con estrema amarezza, come un animale che si dibatte. Ma quando l’Io è quasi morto, desidera esser finito e si lascia venir meno. Se allora l’amore lo risveglia, è un acutissimo dolore che genera ira contro chi l’ha provocato. Da ciò, negli essere degradati, le reazioni (apparentemente inspiegabili) di vendetta contro chi ha fatto loro del bene.
Accade anche che in colui che fa del bene l’amore non sia puro. Allora l’Io risvegliato dall’amore, ricevendo subito, dal disprezzo, una nuova ferita, provoca l’odio più amaro, odio legittimo.
In chi, invece, l’Io è totalmente morto, non c’è nessun imbarazzo per l’amore di cui è fatto oggetto. Si lascia fare; come i cani e i gatti che ricevono nutrimento, calore, e carezze e, come quelli, è avido di riceverne il più possibile. Secondo i casi, si affeziona come un cane o si lascia fare, con una specie di indifferenza, come un gatto. Beve senza il minimo scrupolo tutta l’energia di chiunque si occupi di lui.
Disgraziatamente, ogni opera caritatevole rischia di avere come clienti una maggioranza di persone senza scrupoli o, soprattutto, esseri in cui l’Io è stato ucciso.

Simone Weil, L’ombra e la grazia

Ormai più

Ormai più bagnati non si può diventare; solo bisogna cercare di muoversi il meno possibile, e soprattutto di non fare movimenti nuovi, perché non accada che qualche altra porzione di pelle venga senza necessità a contatto con gli abiti zuppi e gelidi.
È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure, piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggi, vento, e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.

[…]

Lo sappiamo, che domani sarà come oggi: forse pioverà un po’ di più o un po’ di meno, o forse invece di scavar terra andremo al Carburo o a scaricar mattoni. O domani può anche finire la guerra, o noi essere tutti uccisi, o trasferiti in un altro campo, o capitare qualcuno di quei grandi rinnovamenti che, da che Lager è Lager, vengono infaticabilmente pronosticati imminenti e sicuri. Ma chi mai potrebbe seriamente pensare a domani?
La memoria è uno strumento curioso: finché sono stato in campo, mi hanno danzato per il capo due versi che ha scritto un mio amico molto tempo fa:

…infin che un giorno
senso non avrà più dire: domani.

Qui è così. Sapete come si dice «mai» nel gergo del campo? «Morgen früh», domani mattina.

Primo Levi, Se questo è un uomo

Ordo amoris (Allogenesi)

Frida Kahlo, Abrazo Amoroso

L’uomo può amare una cosa, un valore come quello della conoscenza, può amare questa o quell’altra immagine della natura, può amare un uomo come amico o in qualsiasi altro modo: tutto ciò significa sempre che egli nel suo centro personale esce da sé come unità corporea e che tramite e in tale azione egli coopera ad affermare la tendenza di un oggetto altro da sé verso una perfezione ad esso appropriata; coopera inoltre a realizzare tale tendenza, a sostenerla e a benedirla.

Max Scheler, Ordo amoris, 1914-1916

30/4/2005

Ho messo la mia anima tra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole altro
che riposare in te.

Ma schiudile se un giorno
la sentirai fuggire. Fa’ che siano
allora come foglie e come vento,
assecondando il suo volo.

E sappi che l’affetto nell’addio
non è minore che nell’incontro. Rimane
uguale e sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in obbedienza al destino.

Margherita Guidacci, All’ipotetico lettore