Qualcosa non quadra, pensò. Naturalmente alla notte insonne del caporedattore si aggiunse la notte di felicità e vodka di Ivanov, che decise di festeggiare il suo primo succcesso nelle peggiori bettole di Mosca e poi alla Casa dello Scrittore, dove cenò con quattro amici che sembravano i quattro cavalieri dell’Apocalisse. Da quel momento in poi a Ivanov chiesero solo racconti di fantascienza e lui, guardando bene il primo, che aveva scritto per così dire inavvertitamente, ripeté la formula con alcune varianti che ricavò a poco a poco dal grande patrimonio della letteratura russa e da certe pubblicazioni di chimica, biologia, medicina e astronomia che accumulava nella sua stanza come l’usuraio accumula i mancati pagamenti, le cambiali, gli assegni insoluti. Così divenne famoso in tutti gli angoli dell’Unione Sovietica e non tardò a diventare uno scrittore professionista, uno che viveva esclusivamente di quanto gli rendevano i libri e che andava a congressi e conferenze nelle università e nelle fabbriche mentre riviste e pubblicazioni letterarie si disputavano i suoi lavori.
Categoria: Campionamenti
Il treno degli Urali
Ivanov era iscritto al partito dal 1902. A quell’epoca aveva cercato di scrivere racconti alla maniera di Tolstoj, Čechov, Gor’kij, cioè aveva tentato di plagiarli senza troppo successo, perciò, dopo una lunga riflessione (tutta una notte d’estate), aveva astutamente deciso di scrivere alla maniera di Odoevskij e Lažečnikov. Cinquanta per cento di Odoevskij e cinquanta per cento di Lažečnikov. Non gli era andata male, in parte perché i lettori avevano dimenticato, con la mancanza di memoria tipica dei lettori, il povero Odoevskij (nato nel 1803 e morto nel 1869) e il povero Lažečnikov (nato nel 1792 e morto, come Odoevskij, nel 1869), e in parte perché la critica letteraria, acuta come sempre, non aveva estrapolato né collegato né si era accorta di nulla.
Nel 1910 Ivanov era quello che si è soliti definire uno scrittore promettente, dal quale ci si aspettavano grandi cose, ma Odoevskij e Lažečnikov, come modelli da imitare, non consentivano nulla di più e la produzione artistica di Ivanov ebbe una bella frenata o, a seconda dell’ottica, un crollo, da cui non riuscì a salvarlo neppure un nuovo ibrido che tentò in extremis: mescolare lo hoffmaniano Odoevskij e il fan di Walter Scott Lažečnikov con la stella ascendente di Gor’kij. I suoi racconti, dovette rassegnarsi, non interessavano, e le sue finanze ne risentirono, ma ancor più ne risentì il suo orgoglio. Fino alla Rivoluzione di Ottobre, Ivanov scrisse sporadicamente per riviste scientifiche, per riviste di agricoltura, fece il correttore di bozze, il venditore di lampadine elettriche, l’assistente in uno studio di avvocato, senza trascurare i suoi lavori per il partito, dove faceva praticamente qualunque cosa di cui ci fosse bisogno, da redigere e stampare volantini a trovare la carta a fare da tramite con altri scrittori simpatizzanti e con qualche compagno di viaggio. E tutto senza lamentarsi né abbandonare le sue vecchie abitudini: la visita quotidiana ai locali dove si riuniva la bohème moscovita e la vodka.
Una mente rozza e potente
Quella sera, tuttavia, Hans gli chiese o si chiese a voce alta (era la prima volta che parlava) cosa pensassero quelli che vivevano o frequentavano la quinta dimensione. All’inizio il direttore non capì bene, benché il tedesco di Hans fosse molto migliorato da quando era andato a costruire strade e ancora di più da quando viveva a Berlino. Poi afferrò l’idea e smise di badare a Halder e a Nisa per concentrare il suo sguardo di falco o di aquila o di avvoltoio necrofago negli occhi grigi e tranquilli del giovane prussiano, che stava già formulando un’altra domanda: cosa pensavano quelli che avevano libero accesso alla sesta dimensione di quelli che si collocavano nella quinta o nella quarta? Cosa pensavano quelli che vivevano nella decima dimensione, cioè quelli che percepivano dieci dimensioni, riguardo alla musica, per esempio? Cos’era per loro Beethoven? Cos’era per loro Mozart? Cos’era per loro Bach? Probabilmente, si rispose da solo il giovane Reiter, solo rumore, un rumore come di pagine accartocciate, un rumore come di libri bruciati.
In quel momento il direttore d’orchestra alzò una mano in aria e disse o meglio sussurrò in tono confidenziale:
«Non parli di libri bruciati, caro giovanotto».
Al che Hans rispose:
Ciò che determina il destino
Da Ordo amoris, di Max Scheler:
Chi ha l’ordo amoris di un uomo ha l’uomo stesso. Ha per l’uomo inteso come soggetto morale ciò che è la formula di cristallizzazione per il cristallo. Scruta l’uomo fino al punto limite a cui può arrivare chi voglia scrutare l’uomo. Vede davanti a sé le linee fondamentali del suo cuore, che compiono il loro percorso restando costantemente al di là di ogni diversità e di ogni complessità di carattere empirico; è il cuore infatti che più del conoscere e del volere merita di essere definito come nucleo dell’uomo inteso quale essere spirituale. Chi ha l’ordo amoris di un uomo possiede in uno schema spirituale la fonte originaria che segretamente alimenta tutto ciò che da quest’uomo proviene; ancor di più: possiede l’elemento originario che determina tutto quello che continuamente appresta a prodursi attorno a lui – ciò che nello spazio determina il suo ambiente morale, ciò che nel tempo determina il suo destino, ossia l’insieme di tutto ciò che a lui e solo a lui può accadere. Poiché già il semplice fatto che l’uomo attribuisca il valore di stimolo, in base alla modalità e all’intensità d quest’ultimo, a una qualche attività della natura che non dipende da lui ma che ha effetto su di lui, non può avvenire senza la partecipazione del suo ordo amoris.
(oltre) I limiti dell’interpretazione
Così perfetto
Un mercante sulla Strada Reale, ai tempi del re persiano Dario
Non ci sarà mai un’altra strada come questa.
Voi non potete neanche immaginarla, perché è così lunga che non entra nelle vostre teste.
Seguo la carovana di enormi carri cigolanti.
Io sono stato ovunque. Da ragazzo, accompagnando mio padre che fumava, mi sono inerpicato in luoghi inimmaginabili. Ma da quando il Re dei Re ha compiuto la strada tutto è diverso. Sembra la traccia di una gigantesca lumaca che spiana tutto. Non c’è più bisogno di inerpicarsi. È qui il centro del mondo, un centro lungo, e chi vuole vivere deve avvicinarsi, se i soldati lo lasciano passare. Ci sono moltitudini per le quali avvicinarsi è impossibile, immagino che sia perché se lo meritano.
All’andata porto oppio, al ritorno schiavi. Ma preferisco l’oppio, perché gli schiavi sono merce infida.
Le stesse
Mi chiedo se c’è una differenza tra quelli che il giorno in cui Eluana spirò scelsero di guardare Grande Fratello e quelli che invece stavano davanti alla clinica a litigare, oppure stavano su Facebook a compilare status pro o contro questa povera ragazza e il suo corpo conteso. A corollario di questo è bene aggiungere che le persone, che si giocavano a colpi di veglie, preghiere, note internet il corpo appena morto di Eluana, erano le stesse che qualche settimana prima non potevano trattenere lo sdegno sui morti di Gaza, oppure discutevano della leadership all’interno del pd. Non esiste nessuna differenza tra questi e coloro che hanno guardato Grande Fratello. Entrambi vivono la logica del sentimento istantaneo: s’indignano a comando, si commuovono per qualcosa che li tocca superficialmente. C’è una totale indeterminatezza morale che mi pare figlia del dolore spettacolarizzato, dove ogni sentimento viene metabolizzato ed espulso nel giro di poco. Io non ho prove per sostenere quello che dico, tanto che qualsiasi persona potrebbe rispondermi che ha vissuto la vicenda Eluana come una tragedia.
da Il corpo e il rito. Appunti su Eluana Englaro, di Demetrio Paolin,
in Corpo morto e corpo vivo. Eluana Englaro e Silvio Berlusconi,
di Giulio Mozzi, Transeuropa 2009
Poi arriva un giorno
«Poi arriva un giorno, che è un giorno più bello degli altri, Abramo si è alzato ed è felice, perché oggi il sole è splendente e sa che passerà un giorno intero con suo figlio. In quel giorno dio chiama Abramo e gli dice: “Se tu mi ami, devi sacrificarmi tuo figlio.” Abramo non guardò dio, che l’avrebbe ucciso. Decise che non c’era niente da fare, forse Isacco era nato per questo. Gli uomini un tempo erano così, non si chiedevano le cose. Abramo disse che Isacco possedeva qualcosa che lo faceva caro a dio e che dio voleva Isacco. Quindi partì con suo figlio per sacrificarlo. Tu sai cosa vuol dire sacrificarlo, Silvio?»
«Sì» disse Silvio, «lui voleva ucciderlo.»
«Però Abramo non voleva, è questo il centro del racconto. Abramo non voleva, si era svegliato felice, ad un tratto qualcosa accade e deve uccidere il proprio figlio…» Così nella vita felice di una famiglia, basta un pomeriggio e una scoperta, e cambia ogni cosa. Tutti si concentrano sul fatto che Abramo deve uccidere il figlio, ma l’importante è che dio gli chieda di ucciderlo. È lì il problema: dio chiede una cosa del genere. Il resto, che Abramo abbia ucciso o meno Isacco (poi non l’ha ucciso), non cambia il fatto che dio abbia deciso questo. Se dio è così, allora forse ha sbagliato qualcosa. Se decide che Abramo deve avere un figlio e poi sacrificarlo, significa che dio è confuso, che ha fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di male. E se l’errore è di dio, vuol dire che la nostra colpa non c’è. Questo non ci toglie il dolore, la vergogna, anzi l’aumenta; non ci toglie il male, che rimane. È possibile che nel concreto io faccia del male a qualcun altro? È possibile che non sia male di per sé, ma diventi male? È possibile che quello che io amo diventi male così male da avvelenarsi?
Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione
La peste
Ecco le domande che abbiamo rivolto al fondatore delle Brigate Rosse.
Prima: la sua liberazione dal carcere fu una delle azioni più spettacolari degli anni di piombo. Mi sono convinto che in realtà Mara Cagol non l’ha liberata per amore, ma per violenza. Un po’ come successe a Cristo: quando venne arrestato nell’orto degli Ulivi, Pietro sguainò la spada…
Seconda: Stando a molti, le Br nacquero dall’incontro della sinistra oltranzista e dell’ala più radicale del cristianesimo militante. Voi volevate liberare i poveri, ma Gesù ha detto Beati i poveri perché di essi è il regno dei cieli. Se voi liberate i poveri, il regno dei cieli non verrà. Se i poveri diventano ricchi, diventano qualcosa di peggio, perché il loro guadagno è già in questo mondo. Il Male è necessario perché avvenga la redenzione. Se voi lo togliete a cosa serve dio? Bisogna che il Male rimanga tale, che non venga modificato; bisogna che la gente soffra, s’ammali, muoia, uccida e venga uccisa, proprio perché così è possibile che alla fine dei tempi dio si mostri.
Un bambino nasce e sembra normale, poi si scopre che ha una malformazione: è giusto che l’abbia, è normale che l’abbia, perché è segno che questa vita, la mia la sua quella di questo ipotetico bambino, non è per niente salva. Come possiamo amare qualcosa che è già salvo? Come possiamo amare qualcosa che non sia imperfetto, fragile e perduto? Si ama solo ciò che è male, solo ciò che è toccato dal male, nella speranza che l’amore redima e tolga. È una speranza, è vana e ci costringe ad amare qualcosa in continua agonia. Lei invece, ritornando all’esempio, vuole guarire effettivamente il bambino della sua deformità. Ma se il bambino è sano, è inutile amarlo.
Ecco, le domande sono senza risposta, perché Curcio non ha voluto rispondere. I padri, chiunque essi siano, non parlano. Sono le nostre sfingi e se ne vanno (chi inghiottito dalla massa, chi rifugiandosi nel bricolage da cantina) rigorosamente mute. Ma noi non faremo come Edipo. Lo liberiamo e ci liberiamo, qui e ora, di ogni accusa di colpevolezza nei confronti del padre e della madre. Rispondendo da soli alla domanda delle sfingi, abbiamo liberato la città. Nella città liberata si è prodotta la peste. E di questo, davvero, noi non abbiamo colpa.
Demetrio Paolin, Il mio nome è Legione
Indagine sulla rabbia
Da La futura classe dirigente, di Peppe Fiore:
La margherita della pizzeria L’Economica sfilaccia penosamente alla prima fetta. Francesca mi descrive l’ambiente di lavoro al Tempo, che è il giornale dove sta adesso. Mi immagino i suoi colleghi, me l’immagino benissimo, tutti romanacci nipoti di assessore, che passano la giornata a provarci di prammatica con lei in quanto stagista a cinquecento euro al mese. Mi incazzo, vorrei rovesciare il tavolo e fare una strage al napalm degli studenti fuorisede agli altri tavoli, per cambiare discorso le dico di Qua la zampa!, dell’intima sostanza televisiva contenuta nelle vaghe pupille dei bastardini abbandonati. Francesca dice che sarebbe una cosa carina, in fondo io mi sono sempre vantato di andare d’accordo più con le bestie che con gli esseri umani. Musica maestro: mi incazzo come una iena. Che ne sa lei di quello che significa lavorare sui format, i ritmi fordisti, l’intelligenza al servizio dello stereotipo, lo stress eccetera eccetera? Gianluca ha fatto La talpa e dopo tre mesi vedeva Paola Perego ovunque.