«Coloro che affermano: “Il Signore è morto e poi è risuscitato” sbagliano. Egli infatti prima risorse e poi morì. Chi non ottiene prima la risurrezione, costui morirà. Poiché Dio vive, costui sarà morto».
Vangelo di Filippo, 56
«Coloro che affermano: “Il Signore è morto e poi è risuscitato” sbagliano. Egli infatti prima risorse e poi morì. Chi non ottiene prima la risurrezione, costui morirà. Poiché Dio vive, costui sarà morto».
Vangelo di Filippo, 56
Se la divina volontà impone al momento presente il dovere di leggere, la lettura realizza in fondo al cuore il fine misterioso; se la divina volontà impone di lasciare la lettura per un dovere di contemplazione attuale, sarà questo dovere a realizzare in fondo al cuore l’uomo nuovo, e la lettura diventerebbe allora pericolosa e inutile. Se la volontà divina distoglie dalla contemplazione attuale e impone invece di ascoltare le confessioni ecc., e questo (per) un tempo considerevole, tale dovere forma Gesù Cristo in fondo al cuore, e tutta la dolcezza della contemplazione non servirebbe che a distruggerla.
Il demonio ingannerà alcuni nel modo seguente. In maniera del tutto straordinaria infiammerà i loro cervelli di passione per l’obbedienza alla legge di Dio e per la distruzione del peccato negli altri.
Quando Rabbi Hajim di Zans ebbe unito in matrimonio suo figlio con la figlia di Rabbi Eleazaro, il giorno dopo le nozze si recò dal padre della sposa e gli disse: “O suocero, eccoci parenti, ormai siamo così intimi che vi posso dire ciò che mi tormenta il cuore. Vedete: ho barba e capelli bianchi e non ho ancora fatto penitenza!”. “Ah, suocero – gli rispose Rabbi Eleazaro – voi pensate solo a voi stesso. Dimenticatevi di voi e pensate al mondo!”.
Questo può sembrare contraddire tutto quanto ho detto finora in queste pagine sull’insegnamento del chassidismo. Abbiamo imparato che ogni uomo deve ritornare a se stesso, che deve abbracciare il suo cammino particolare, che deve portare a unità il proprio essere, che deve cominciare da se stesso; ed ecco che ora ci viene detto che deve dimenticare se stesso! Eppure basta prestare un po’ più di attenzione per rendersi conto che quest’ultimo consiglio non solo si accorda perfettamente con gli altri, ma si integra nell’insieme come un elemento necessario, uno stadio indispensabile, nel posto che gli compete. Basta porsi quest’unica domanda: “A che scopo?”; a che scopo ritornare in me stesso, a che scopo abbracciare il mio cammino personale, a che scopo portare a unità il mio essere? Ed ecco la risposta: “Non per me”. Perciò anche prima si diceva: cominciare da se stessi. Cominciare da se stessi, ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi, ma non preoccuparsi di sé.
L’idolatria ha origine dal fatto che, assetati del bene assoluto, non si possiede l’attenzione sovrannaturale e non si ha la pazienza di lasciarla sorgere.
In mancanza di idoli, dobbiamo spesso (tutti o quasi tutti i giorni) penare a vuoto. Senza pane sovrannaturale, impossibile sopportare quella pena.
L’idolatria è dunque, nella caverna, una necessità vitale. Anche fra i migliori, è inevitabile che essa limiti strettamente intelligenza e bontà.
I pensieri sono mutevoli, obbedienti alle passioni, alle fantasie, alla stanchezza. L’attività dev’essere continua, tutti i giorni, molte ore al giorno. Sono necessari dunque moventi dell’attività che sfuggano ai pensieri, quindi alle relazioni: idoli, cioè.
Tutti gli uomini son pronti a morire per quel che amano. Differiscono solo per il livello della cosa amata e per la concezione o la dispersione del loro amore. Nessuno ama se stesso.
L’uomo vorrebbe essere egoista e non può. È questo il carattere più impressionante della sua miseria e l’origine della sua grandezza.
L’uomo si vota sempre a un ordine. Però, salvo illuminazione sovrannaturale, quell’ordine ha per centro o se stesso, o un essere particolare (che può essere una astrazione) nel quale egli si è trasferito (Napoleone per i suoi soldati, la Scienza, il Partito, ecc.). Ordine prospettico.
Non dobbiamo acquistare l’umiltà. L’umiltà è in noi. Soltanto, ci umiliamo dinanzi a falsi dèi.
Simone Weil, “Idolatrie”, La pesanteur et la grace.
Traduzione di Franco Fortini.
καὶ ἄφες ἡμῖν τὰ ὀφελήματα ἡμῶν, ὡς καὶ ἡμεῖς ἀφίεμεν τοῖς ὀφειλέταις ἡμῶν
Et remets-nous nos dettes, de même que nous aussi avons remis à nos débiteurs
E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi abbiamo rimesso ai nostri debitori
Al momento di proferire queste parole occorre che i nostri debiti siano stati tutti rimessi. Non si tratta soltanto della riparazione alle offese che pensiamo di aver subìto. Si tratta anche della riconoscenza per il bene che crediamo di aver compiuto, e in generale di tutto ciò che ci aspettiamo da parte degli esseri e delle cose, di tutto ciò che giudichiamo ci sia dovuto e la cui mancanza susciterebbe in noi il sentimento di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che a nostro avviso il passato ci dà sull’avvenire. In primo luogo, il diritto a una certa permanenza. Quando abbiamo goduto di qualcosa a lungo, crediamo che sia di nostra proprietà, e che la sorte sia tenuta a lasciarcene godere ancora. In secondo luogo, il diritto a una compensazione per ogni sforzo, quale che ne sia la natura – lavoro, sofferenza o desiderio. Ogni volta che esce da noi uno sforzo e non rientra in noi l’equivalente di questo sforzo sotto forma di un frutto visibile, avvertiamo un sentimento di squilibrio, di vuoto, al punto di sentirci come derubati. Lo sforzo di subire un’offesa ci induce ad aspettarci il castigo o le scuse di colui che ci ha offesi; lo sforzo di compiere il bene ci induce ad aspettarci la riconoscenza di colui che è in obbligo. Ma questi sono semplici casi particolari di una legge universale della nostra anima. Ogni volta che esce da noi qualcosa, abbiamo un bisogno assoluto che rientri in noi almeno l’equivalente, e siccome ne abbiamo bisogno, crediamo di averne il diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose l’universo intero. Pensiamo di aver crediti su ogni cosa. Ma tutti i crediti che crediamo di avere sono riconducibili a un credito immaginario del passato verso l’avvenire. È a questo credito immaginario che bisogna rinunciare.
Per credere che Dio è ricco di misericordia non mi occorre alcuna speranza o promessa. Conosco questa ricchezza con la certezza dell’esperienza, l’ho toccata. E quel che ne conosco per contatto supera talmente la mia capacità di comprensione e di gratitudine che per me neppure la promessa di una felicità futura potrebbe aggiungervi alcunché, così come per l’intelligenza umana la somma di due infiniti non costituisce un’addizione.
La misericordia di Dio si manifesta nella sventura quanto nella gioia, a pari titolo, e forse anche di più, giacché in questa forma non ha alcun equivalente umano. La misericordia dell’uomo appare soltanto nel dono della gioia, oppure allorché si infligge un dolore in vista di effetti esteriori, guarigione del corpo o educazione. Ma non sono gli effetti esteriori della sventura che testimoniano la misericordia divina. Nel caso di una vera sventura gli effetti esteriori sono quasi sempre cattivi. Quando li si vuole dissimulare si mente. La misericordia di Dio risplende invece nella sventura stessa. E proprio nel fondo, al centro della sua inconsolabile amarezza. Se perseverando nell’amore si cade fino al punto in cui l’anima non riesca più a trattenere il grido: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?», se si rimane in quel punto senza smettere di amare, si finisce con il toccare qualcosa che non è più la sventura né è la gioia, bensì l’essenza centrale, essenziale, pura, non sensibile, comune alla gioia e alla sofferenza, ovvero l’amore stesso di Dio.
Si saprà allora che la gioia è la dolcezza del contatto con l’amore di Dio, che la sventura è la ferita procurata dal medesimo contatto quando è doloroso, e che importa soltanto il contatto, non il modo in cui avviene.
Parimenti, quando rivediamo un essere a noi molto caro dopo una lunga assenza, non contano le parole che scambiamo con lui, ma soltanto il suono della sua voce, che ci assicura della sua presenza.
La cognizione della presenza di Dio non consola, non toglie alcunché alla tremenda amarezza della sventura, non risana la mutilazione dell’anima. Sappiamo nondimeno con certezza che l’amore di Dio per noi è la sostanza stessa di quest’amarezza e di questa mutilazione.
Simone Weil, Lettera a Joseph-Marie Perrin del 26 maggio 1942, estratto.
Traduzione di Maria Concetta Sala.