Immersioni

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Stanislaw lem

«Che?… » mormorò Rohan con voce tremante, quasi trattenendo il respiro. Nel gergo degli equipaggi quell’apparecchio era soprannominato stetoscopio dei sepolcri. Nei casi di morte recente, o quando, come ora, non c’era stata decomposizione del corpo, era possibile ascoltare il cervello, o meglio ciò che rappresentava l’ultimo contenuto della coscienza.
L’apparecchio lanciava in profondità nel cranio degli impulsi elettrici, questi percorrevano il cervello secondo le linee di minor resistenza, muovendosi lungo quelle fibre nervose che, prima dell’agonia, avevano costituito una entità funzionale. I risultati non erano mai totalmente sicuri, ma si diceva che talvolta le informazioni ottenute fossero di un’eccezionale importanza. Nei casi come questo, in cui l’avvenire dipendeva dalla spiegazione del mistero del Condor, l’uso dello stetoscopio dei sepolcri era doveroso. Rohan aveva già supposto che il neurologo in realtà non aveva mai contato sulla possibilità di far rivivere l’uomo, ma era venuto soltanto per udire ciò che quel cervello avrebbe potuto comunicargli. Era in piedi, immobile, col cuore che batteva e la bocca stranamente inaridita, quando Sax gli porse il secondo ricevitore. Se questo gesto non fosse stato così naturale e semplice, lui non avrebbe mai osato mettersi la cuffia auricolare. Ma fu incoraggiato dallo sguardo calmo del dottor Sax, che stava inginocchiato presso l’apparecchio e girava il pulsante di amplificazione, a piccoli scatti.

Sulle prime udì solo il ronzio della corrente e ne provò sollievo, perché non voleva udire niente. Senza rendersene conto, avrebbe preferito che il cervello dell’uomo rimanesse muto come un sasso. Sax, alzandosi, gli raddrizzò la cuffia. Rohan vide allora qualcosa sovrapporsi alla paratia bianca della cabina inondata di luce, un’immagine grigia, come fatta di polvere, annebbiata e fluttuante a una distanza indefinita. Strinse involontariamente le palpebre e ciò che scorgeva dinanzi a sé di-
venne quasi distinto. Era come un passaggio all’interno della nave, con dei tubi sul soffitto; corpi umani ne bloccavano tutta la larghezza. Apparentemente si muovevano, ma tutta l’immagine vibrava e ondeggiava. Gli uomini erano seminudi, i resti dei vestiti pendevano in brandelli, e la pelle d’un bianco soprannaturale era invece coperta come da picchiettature nere o da una eruzione cutanea. Poteva darsi che questo fenomeno fosse soltanto un effetto secondario casuale, poiché le stesse virgole nere brulicavano fin sul pavimento e sulle paratie. L’intera immagine, come una fotografia molto sfocata, scattata attraverso un notevole strato d’acqua, oscillava, si stiracchiava, si contraeva e ondulava. Colto dal panico, Rohan spalancò gli occhi; l’immagine divenne grigia e quasi svanì, rimanendo soltanto come un velo d’ombra sulla luce forte della realtà circostante. Allora Sax riprese a muovere i pulsanti dell’apparecchio e Rohan udì, come all’interno della propria testa, un debole sussurro: « Ala… amma… lala, ala… mamma… »
Nient’altro. La corrente dell’amplificatore miagolò all’improvviso, cinguettò, e riempì gli auricolari d’un urlo ripetuto a singhiozzo, simile a una risata selvaggia, beffarda e orrenda. Ma era solo la corrente: l’eterodina4 aveva cominciato a generare vibrazioni troppo forti.
Sax arrotolò i fili elettrici, li riordinò, li mise nella borsa. Nygren prese un lembo del lenzuolo e ne coprì il corpo e il viso del morto la cui bocca, strettamente serrata finora, si socchiuse, forse a causa del tepore ambientale (faceva quasi caldo nell’ibernatore… almeno Rohan si sentiva gocciolare il sudore lungo la schiena), dandogli un’espressione d’indicibile stupore.

Stanislaw Lem, L’invincibile.
Traduzione di Renato Prinzhofer.