Questa recensione è apparsa sull’Indice di maggio.
A tre anni dall’esordio A cena con Lolita (Pendragon 2005), torna Eva Clesis con un romanzo agile e sincero, che possiede l’essenzialità e la freschezza dei libri scritti con urgenza, e del quale il maggior pregio è forse la credibilità della protagonista, Assunzione Maria Addolorata De Caro, figlia di madre inglese e padre italiano, due allegri fricchettoni che, in occasione del suo settimo compleanno, regalano alla bimba il suo nuovo nome: Alice, omaggio al personaggio di Carroll. L’atmosfera favolistica, irreale e gioiosa che regna nelle scene d’infanzia ambientate nella casa freak, irradiata dall’attitudine psichedelica dei genitori di Alice, è interrotta dalla violenza dell’incidente che lascia orfana la bambina. Alice è letteralmente gettata nel mondo. Viene così affidata alla nonna paterna, la terribile, storica maestra elementare di un paesino del Sud, convinta sostenitrice dell’educazione impartita con il bastone. La perdita dei genitori e il trasferimento forzato capovolgono il carattere di Alice: dapprima taciturna, riflessiva e responsabile, quasi dovesse bilanciare l’inettitudine dei genitori, diviene una ragazzina selvatica e aggressiva, introversa e incapace di spiegarsi a causa di un bilinguismo mai realmente sviluppato, dietro il quale però sembra celarsi una sfiducia che la protagonista nutre nei confronti del linguaggio.
Archetipo della ragazzina aggressiva per compressione, Alice si ritrae da un linguaggio nel quale non trova una propria collocazione, ma a questa rinuncia corrisponde un movimento opposto, di conquista fisica del mondo: Alice impone costantemente una presenza ingombrante, anche nell’aspetto fisico – la faccia tonda, gli occhi sporgenti – e nel vestiario povero e trasandato, muovendosi in direzione contraria alla protagonista di A cena con Lolita che si isolava dal mondo in spazi sempre più piccoli, fino a sparire in una camera d’albergo. Anche questa invasione fisica però è segnata dal fallimento: ogni volta che ad Alice non è imposto un binario ecco che scivola fuori e la situazione le sfugge di mano; beffardamente, quando il guardrail c’è, Alice ha le mani legate. E questa tragedia umana viene messa in scena da Eva Clesis senza la minima indulgenza nel patetico, con uno stile leggero, pulito, che in ogni parola reca i segni dell’amore e dell’empatia che l’autrice prova per la sua protagonista.
Nell’immaginario di Alice, a un’Italia inquadrata e rifiutata nella sua prospettiva più retrograda fa da contraltare una patria ideale, l’Inghilterra, e una famiglia ideale, i nonni materni – i quali tuttavia non l’hanno mai cercata – che la ragazzina tenterà di raggiungere con i mezzi a sua disposizione.
Ma la psicologia felicemente riuscita della protagonista e la freschezza e la sincerità della lingua non sono ancora tutto. Il senso di esilio e di abbandono lasciato dalla scomparsa dei genitori, unici intermediari – e, per quanto amorevoli e simpatici, significativamente incapaci – tra Alice e il mondo, la sensazione di essere prigionieri di una lingua e di una cultura alle quali non si concede fiducia, il sogno di una patria lontana che mai si è veduta: a guardarlo bene, Guardrail dà voce anche al senso di estraneità rispetto al proprio paese che qualcuno, oggi, in Italia, potrebbe provare.