Pubblico, in una serie di post, l’intervento al Pesaro Comics & Games 2014.
(La prima parte, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta, la settima, l’ottava, la nona, la decima, l’undicesima, la dodicesima e la tredicesima)
L’altro me – l’avversario nell’animazione robotica classica
La società dello spettacoborg. Nel post precedente dicevo che lo stile è «uno dei vettori del conflitto tra Banjo e i meganoidi, conflitto interno alla società dello spettacolo che Daitarn 3 non solo rappresenta quando ritrae il mondo contemporaneo – non potrebbe essere altrimenti – ma della quale si pone come rappresentazione consapevole attraverso una serie di stratagemmi che vanno dalla fissità dei ruoli stereotipati, alla ripetitività, all’uso caricaturale e insistente dei cliché del culto dell’immagine – come i riflessi brillanti dei denti – alla comparsa talvolta di vere e proprie macchine da presa nella storia, alle ossessioni narcisiste di Banjo e dei comandanti meganoidi».
Quale sia il campo da gioco lo chiarisce subito il primo episodio, che si apre con un concorso di bellezza femminile indetto da un meganoide allo scopo di trasformare le partecipanti; e in generale, per tutta la serie, sarà lo stesso stilema dell’anime mecha a citare se stesso e porsi come palcoscenico; tutto si svolge sempre come una recitazione, come se ogni personaggio si sentisse sotto l’occhio di una telecamera e ci fosse sempre un pubblico (e spesso effettivamente c’è, nel senso che è rappresentato dentro la narrazione).
Guardiamo da vicino i contendenti. Banjo è un figo: ricco, bello, macho, elegante, potente, ed è praticamente una star; è un nevrotico perfettamente integrato nella microsocietà dello spettacolo di Daitarn 3, una sorta di Bruce Wayne incrociato con James Bond e accompagnato da due Charlie’s Angels che si dividono i caratteri-tipo della bionda svampita e della castana pragmatica, un ragazzino che sembra già sulla buona strada per il maschilismo, e un maggiordomo che è il classico tipo dell’anziano bello dallo stile impeccabile e dalla mira infallibile (si noti che tutti questi personaggi recano con sé una subalternità che non si dispiega solo nella narrazione ma nei loro stessi ruoli e stereotipi). Sull’altro versante, il comandante meganoide di turno è di solito un sociopatico frustrato, spesso un frustrato della società dello spettacolo, e la sua decisione di farsi meganoide si carica di un senso di rivalsa. L’episodio si conclude sempre con una battaglia tra il Daitarn e il comandante meganoide di turno trasformato in megaborg, cioè in un meganoide gigante armato come un robot.
Ci sono episodi più diretti: come il 10, in cui Fan-Lo, regista di arti marziali, vuole filmare la sua vittoria da megaborg su Daitarn e finisce col farsi ammazzare; nel finale, Banjo, in smoking, passa davanti al cinema in cui proiettano quest’ultimo film di Fan-Lo nel quale Daitarn uccide il regista, mentre fuori dal cinema le ammiratrici di Fan-Lo dicono gran bene della regia. Nell’episodio 22 il produttore Carlos ha allestito un’astronave di star del cinema, tra cui il divo meganoide Jimmy Dean, e ha ingaggiato Banjo per la sicurezza; è tutto preparato: l’intento del produttore è filmare dal vero una vittoria del Daitarn. Durante il combattimento i divi tifano Banjo. Jimmy Dean in versione megaborg perde addirittura la parrucca, e una fan di Dean, sua unica tifosa, due secondi dopo averlo visto morire si innamora di Banjo. Ma anche quando il riferimento non è così diretto come in questi due episodi, si tratta sempre, per i comandanti meganoidi, di trovare il modo di proiettare la loro ossessione personale sul palcoscenico del mondo, o, se sono uomini d’affari, di accrescere un successo del quale non si sentono sicuri.
Stile e gigantismo. L’ulteriore mutazione da meganoide a megaborg individua una delle linee sulle quali si muove il confronto: il gigantismo; al gigantismo dei meganoidi Banjo oppone un gigantismo con stile e gli episodi si risolvono (quasi) in una gara a chi ce l’ha più grosso – Daitarn è esageratamente alto, 120 metri contro la media dei 45 dei super robot; i meganoidi sono grossi quanto Daitarn, ma sono mostri – ma si può anche dire che di fronte allo stile di un Banjo i meganoidi tentano di rifarsi, rozzamente, sull’unico aspetto su cui gli è dato intervenire.
Koros non sembra minimamente interessata a queste dinamiche, nemmeno a contrastarle: non guarda in faccia a chi dà il potere: propone un salto evolutivo e non fa problemi di motivazioni personali, di stile o di ceto; per lei la differenza è tecnica e immediatamente nel gesto: i meganoidi sono superiori perché sono più forti e perché hanno deciso di trasformarsi in meganoidi: c’è un aspetto evidente di superomismo di cui l’ideologia dei comandanti meganoidi rappresenta una volgarizzazione. Dunque su un altro piano si può dire che l’oscenità mostruosa è vissuta dagli stessi meganoidi come unica risorsa di un ceto culturalmente subalterno – subalternità rappresentata dal gap di stile – oscenità sventolata dai più meschini come una bandiera orgogliosa e insieme vittimaria (tipicamente un’ideologia razziale, reazione a una frustrazione indotta da una società di cui non si discute la matrice, che si accetta sentendosi colpevolmente inadeguati e rifacendosi sui più deboli), e vissuta dai più dignitosi come coraggiosa scelta di salto antropologico che trasvaluta anche l’estetica; infine percepita da Banjo come attentato allo stile da parte di mostri ridicoli.
Rovesciamento e kitsch. Il che ribalta di nuovo la questione: la perfezione dell’accordo categorico con l’essere da parte di Banjo e del suo team – anche se non vale del tutto per Reika – non può che risolversi in kitsch, tanto che davanti a un meganoide umanamente rispettabile come Katrof, la cretineria sbruffona di Banjo risalta limpidamente. Banjo è distintamente un castigamatti, uno che rimette la gente al suo posto, uno sbirro: non è un caso che giri su una macchina della polizia. Insomma, vista da un’altra angolazione, la contrapposizione è tra la pochezza borghese di Banjo e il superomismo dei meganoidi, massimo esempio del quale è la scelta di Koros, nel finale, di scagliare Marte contro la Terra considerando che gli sconvolgimenti climatici dureranno cinque ore, cinque ore durante le quali, nell’idea di Koros, i terrestri sceglieranno di emanciparsi dalla Terra, cioè sceglieranno di farsi meganoidi, o rimarranno paralizzati dal terrore, terzo escluso.
La gara. Dunque il meganoide di turno è l’altro di Banjo: non solo perché è idealmente figlio del suo stesso padre, ma soprattutto perché giocano (quasi) allo stesso gioco, che il meganoide puntualmente perde. Ma anche in un altro senso il meganoide è l’altro da Banjo: perché Banjo riesce a spezzare l’acciaio a mani nude, almeno tre volte (delle quali due mentre i soldati meganoidi scommettono sulle sue probabilità di farcela; si sente anche un «non è un umano normale») e se dal punto di vista strettamente narrativo ciò insinua dei dubbi sull’integrità biologica della sua umanità, sul piano del senso profondo, che sorga o non sorga il dubbio sulla reale ragione di ciò cui si sta assistendo, ovvero che vi si arrivi per ragionamento o sia oscuramente comunicato per suggestione, ciò contribuisce in ogni caso a collocare Banjo e meganoidi sulla stessa scala machista di forza e di successo, di potere.
Un sospetto che ho. Non solo che Banjo sia un meganoide, ma addirittura che Banjo sappia di essere un meganoide e che la sua furia sia manifestazione o di odio verso se stesso o di volontà di essere l’unica creatura suprema o un misto di entrambi. La mia netta, nettissima sensazione – che non fa che acuirsi mano a mano che si procede verso il finale della serie – è che Banjo stia giocando sporco.
Un altro sospetto che ho. Banjo scappa da Marte portandosi via una fortuna in lingotti d’oro che apparteneva ai meganoidi, fortuna che è anche la base del suo benessere materiale. Se Banjo gioca sporco – ed è mia convinzione che giochi sporco – quanta parte del suo odio è funzionale a occultare/giustificare questo furto?
Il prossimo post sarà ancora su Daitarn: anche qui c’è un abisso, e lo esploreremo.