Questa recensione è apparsa sull’Indice di gennaio.
È una rete, questo romanzo di Paolin, è l’intreccio dei ricordi del protagonista, Demetrio, dapprima giornalista incapace di rinunciare alle proprie velleità letterarie e infine addetto stampa d’un sindacato, strumento docile che s’affida alla mano altrui; Paolin percorre fili di memoria che si incrociano e formano nodi cruciali, lambisce il presente, accompagna Demetrio nel suo peregrinare mentale tra familiari e amici, tra forme di vita diverse e figure simboliche, talvolta incontrate realmente, come Renato Curcio, talvolta, come Mohamed Atta e la ragazza, immaginate e ricostruite nella loro psicologia.
Il titolo del libro identifica due poli: il nome e la legione, l’individuo e la moltitudine, Demetrio e il mondo. Così ogni polo racchiude in sé anche l’altro: Demetrio è tutte le persone che ama, che incontra, che immagina, che ha veduto, Demetrio è Legione, e la legione, la folla degli individui, è un individuo, un’unica sostanza, un dio che ha scelto di divenire carne, dissezione, possibilità d’errore biologico e morale. Creature che si compenetrano attraverso il sesso, la procreazione, l’alimentazione, il trapianto, ibridismi di corpi impazziti che deragliano da un campo morfico all’altro: Il mio nome è Legione racconta – ed è – un unico, traboccante dio di materia che si incontra e si scontra con se stesso, in se stesso, senza soluzione.
È una percezione del mondo che l’accostamento analogico degli episodi alimenta. Paolin narra un viaggio non lineare attraverso l’immenso e pressante corpo divino, intrapreso da quella parte del corpo divino che è Demetrio, un viaggio durante il quale, inesorabilmente, si dissolve come un’illusione il principio di individuazione, e non si distinguono più il male commesso e il male subito, che sono lo stesso male, commesso e subito da un’unica sostanza.
Talvolta il logos di Paolin sale e batte contro la barriera del cielo, che nessuna ascesi può varcare. Al di là è il principio impersonale del dio, totalmente trascendente, completamente altro dall’essere. Tutto ciò che può dirsi davvero esistente si trova al di qua del cielo, s’è fatto mondo abbandonando la perfezione del nulla, incarnandosi. Al nulla si immola Mohamed Atta scagliandosi contro una delle Torri gemelle, mentre appaiono grotteschi i personaggi dei medium, come la signora che parla con Vittorio Alfieri, il Cristo di Quattordio: sono malintesi, scadimenti della trascendenza in pseudofisica, arroganti e offensivi di fronte a un male muto e immane che tragicamente accade ovunque.
Ma il romanzo, non di meno, cresce: è una progressiva e infine completa accettazione dell’esistenza del male, inevitabile e necessaria perché «Come possiamo amare qualcosa che è già salvo? Come possiamo amare qualcosa che non sia imperfetto, fragile e perduto? Si ama solo ciò che è male, solo ciò che è toccato dal male, nella speranza che l’amore redima e tolga». È dunque degna d’amore persino la crudeltà, rappresentata nella sua naturalezza infantile da Tomacek, il ragazzino che emerge costantemente dalla memoria di Demetrio.
E tuttavia nel dolore non si nasconde alcuna gnosi. Per Demetrio il male naturale è ciò che la grazia è per tutti gli altri: alle tentazioni del misticismo e della mortificazione Paolin contrappone una cognizione del male razionale e discorsiva, umana e terrena; e più dell’esperienza del male nella sua immediatezza emotiva, Il mio nome è Legione registra gli effetti emotivi di una lenta accettazione della cognizione razionale del male.