«Mi accorgo che la riflessione sul maschile è ormai per me quasi un’ossessione che mi impedisce di guardare il mondo con occhi “innocenti”. Mi è impossibile osservare una manifestazione, un servizio giornalistico sulla guerra, un’assemblea, senza notare come agisca una dinamica “virile”, una richiesta di appartenenza, una delega al gruppo in nome di un’emergenza rappresentata dal nemico esterno, una proposta di fedeltà a una storia comune. Non posso fare a meno di accorgermi che su un palco o in una sala riunioni sono tutti uomini, non riesco a osservare con indulgenza i maschi che nei cortei si mettono davanti agli striscioni gridando gli slogan con il megafono o l’eccitazione con cui fronteggiano virilmente la polizia e gli avversari politici. Così nella mia vita professionale non posso più fare a meno di percepire come insostenibili i comportamenti che affermano l’autorità, che ricercano complicità maschili in un giudizio su una collega o usano le competenze e i risultati come strumenti di una gara di misura della propria virilità.
Si potrebbe dire che questo sia il segno di una fine di riconoscimento a un ordine simbolico che ormai emerge nudo, incapace di dissimulare come neutri e naturali i propri effetti. Ma è al tempo stesso la misura di quanto questo ordine simbolico mantenga una grandissima potenza seduttiva, un’enorme capacità di conferire senso alla vita degli uomini, riproponendosi in ogni luogo sociale.
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Questa prossimità con modelli tradizionali di virilità l’ho sentita ancora in tutto il suo stridore quando molti uomini di un movimento che sceglieva di dire che “un altro mondo è possibile”, “giocavano alla guerra” inseguendo una strategia di legittimazione.
Ho scelto, con altri, di seguire percorsi paralleli di critica della politica e delle sue forme e di farlo in quanto uomo, affermando la valenza politica di questa collocazione. Questo punto di vista mi porta a chiedermi perché le forme politiche e i linguaggi dei movimenti di opposizione vengano continuamente risucchiati da un richiamo verso la specularità e la riproduzione dei modelli dominanti. Anche le innovazioni più interessanti.
Mi ha colpito, per esempio, la relativamente repentina mutazione di una novità che aveva contrassegnato i cortei e le manifestazioni di piazza: la comparsa dei sound systems, quei camion che, spezzando la continuità delle fila serrate, producevano degli spazi dove le persone potevano ballare. Negli anni Ottanta la ricerca di forme diverse dal corteo, che esprimessero con più coerenza la finalità comunicativa delle nostre manifestazioni, aveva rotto con un simbolico serrare le fila ”dietro lo striscione”: le catene umane ci permisero per la prima volta a Roma dopo il Settantasette di superare senza scontri e con sorpresa da parte della polizia i divieti di accesso al centro. Anche il tentativo di portare la musica nel corteo per farne uno spazio di relazione e di comunicazione e non un corpo estraneo che invade la città ― senza mezzi tecnici e forse senza adeguata cultura musicale ― fu parte di quella sperimentazione. Oggi mi colpisce come i camion con la musica siano diventati sempre più grandi e ostentati nella loro potenza. In pochi mesi quell’apertura si è mutata in una nuova metafora militare e virilista: grandi portaerei hanno invaso i cortei, spesso con colori lugubri, con a bordo uomini che guardano fieramente lontano o donne che li imitano. Nella migliore delle ipotesi si riducono a offerta di consumo per attirare giovani studenti a ingrossare le proprie fila senza nessuna relazione politica tra chi balla, chi guida, chi conta la numerosità degli spezzoni di partito, chi sceglie la musica».
Stefano Ciccone, Essere maschi